22 mag 2025

Un par de bicchieri

Come si cambia, come ci si rimbecillisce in accordo a tutte le strategie studiate dai furbi e colorati caporioni creati dal destino ormai programmato solo per svolazzare sulle gobbe degli svariati mortidifame di facile obnubilazione ed incapaci a capire che oltre ad essere severamente sfruttati/e e presi in giro ci rischiano pure la loro serena esistenza.
Con i tempi odierni poi è sempre meglio pagarsi una risonanza piuttosto che aspettare un anno per farla con il ticket ed invece ci sono ancora quelli che vanno dal psichiatra perché soffrono di ansie, visioni jellate, amori controversi e che il tecnico si limita a risolvere con pillolette da 50 mg giornaliere quando invece nei casi veri ne occorrono 800 di mg al giorno e l'imbranato/a di turno si autoconvince che finalmente i suoi guai sono risolti, senza pensare di aver dato una bella rendita a quel tecnico con le percentuali che ricava dalle vendite di quelle pillolette che guarda caso non sono pagate dal servizio sanitario che conosce bene queste furbate ma le lascia per far ingrassare chi le crea, il servizio sanitario si fa carico solo dei casi veri da 400 o 800 mg al giorno ma i costi per i medicinali di questa potenza sono di molto inferiori a quelli delle pillolette da 50 mg pagate cash dal caciottaro di turno.
Vabbé, direte Voi, ma se quello/a è contento/a e si autodefinisce guarito va bene per tutti è un'opera bbona elargita dal cielo, si però quelle pillolette da prender per la vita dal costo (suggerito) di 1,50 € al giorno comportano un esborso annuo di 500 eurini che il mortodifame corto di cervello potrebbe spendere per qualcosa di serio sia per la salute che per altre iniziative più salutari. 
Ecco, sto cercando di convincere la consorte a tornare al classico ma volgare bicchier di vino a pranzo e a cena, eliminato da anni, ma non facendole leggere questo post da me elaborato solo per chi ha ancora il controllo del proprio cervello, ma investendo soldi in delicato champagne e prosecco, chissà, magari abbocca ma ci credo poco.  

Non mi sono mai dimenticato di VOI studenti e minorenni che una volta mi leggevate 

10 commenti:

blogredire ha detto...

Ritornare al bicchiere di vino a pranzo e cena è cosa buona e giusta.

Franco Battaglia ha detto...

Sì ma sposala la consorte. Senti a me. ;) ..e beveteci un bicchiere alla salute..

MaratonetaGiò ha detto...

Il bicchiere di vino bevuto al termine dei pasti è una vera panacea. Se poi è bianco e frizzante ha il potere di rasserenarmi.

Anonimo ha detto...

Sembra proprio una di quelle classiche scene da manifestazione della sinistra “vintage”: lo striscione srotolato a metà, il vino che gira come verità assoluta (Dio c’è… e ha portato il rosso), e in sottofondo l’eterna domanda militante: Ma i tarallucci chi li porta?.
Perché va bene combattere il sistema, ma senza carboidrati non si va da nessuna parte. Fracatz fracatz... chi te la fa fare di scrivere post, unisciti a noi e... bevi. Che tanto la rivoluzione mica si fa a stomaco vuoto, e nemmeno con la gola secca. Le donne le porti tu?

fracatz ha detto...

le mie ormai fanno solo il burraco

Andrea ha detto...

Il tuo post, come sempre, è un colpo ben assestato alle costole del buon senso comune, ma stavolta sembra quasi un grido sarcastico, sì, ma disperatamente lucido. E mi tocca risponderti, perché il punto che sollevi brucia anche sotto la pelle di chi si illude di non sentirlo.
Hai descritto con precisione chirurgica un meccanismo subdolo: quello che spinge orde di ansiosi cronici da discount a imbottirsi di pillolette leggere, spacciate per “cura”, quando servirebbero piuttosto due schiaffi affettuosi, un po’ di realtà, o perché no, un bicchiere di vino condiviso con chi ancora riesce a sostenere uno sguardo senza tremare. E invece no. Si preferisce la scorciatoia chimica, l’autoinganno costoso, quella dose giornaliera di placebo travestito da salvezza. Il sistema, furbissimo, lo sa: non paga i farmaci seri, ma lucra su quelli inutili, leggeri, da banco, perché il cliente ideale è quello che si sente malato senza esserlo davvero, e soprattutto non smette mai di comprarli. E poi ci stupiamo se si preferisce spendere 500 euro all’anno in ansiolitici da supermercato invece che in qualcosa che abbia almeno un sapore, un corpo, una storia. Lo chiami “bicchiere di vino”, ma in fondo stai parlando di altro: della capacità di stare al mondo con un minimo di dignità e coscienza, di affrontare il disagio senza vendergli l’anima. Capisco il tuo tentativo con la consorte: non sarà facile, perché ormai anche il vino ha perso la sua aura di rituale quotidiano, e molti lo vedono come una trasgressione più grave di una dipendenza farmacologica. Ma la tua battaglia ironica, velenosa, tragicamente vera, è anche la nostra. Di quelli che ancora pensano con la propria testa, e bevono con il proprio fegato.
Avanti pure, a testa alta, con un calice sincero e il cervello acceso.

allegropessimista ha detto...

Battaglia persa
Dolce consorte usa i medicinali alternativi che compra e poi lascia lì nell'armadietto.

fracatz ha detto...

in effetti nelle giovin speranze il vino ed i superalcolici servono solo a sballarsi quando con i soldi della paghetta il sabato sera vanno a vivere.
Le giovin speranze, che ancora a tavola giornalmente bevono solo acqua minerale e bibite gassate, perché ben educate dai loro genitori

Anonimo ha detto...

L’essere umano, contrariamente a quanto postulano molte visioni metafisiche o essenzialiste, non si fonda su un nucleo stabile e autosufficiente. Non esiste un “io” originario, pre-sociale, che si definisce per propria essenza e che, solo in un secondo momento, entra in contatto con l’altro. Al contrario, l’“io” è già in origine un essere-in-relazione, un nodo di scambi, riconoscimenti, conflitti e desideri. L’identità non è un presupposto, ma un prodotto: essa emerge dal gioco delle relazioni intersoggettive. Il fondamento dell’umano non è l’interiorità ma l’intercorporeità, non la solitudine ma la co-esistenza. La nascita stessa è un atto radicalmente relazionale: veniamo al mondo attraverso un altro, da un altro, e da subito entriamo in una rete di gesti, sguardi, linguaggi che ci costituiscono ben prima della coscienza riflessiva. Il volto dell’altro non è un accidente della nostra esperienza: è la condizione della nostra umanità. Ora, perché parlare di relazione “autentica”? Perché non ogni forma di interazione è capace di costituire un soggetto in senso pieno. L’autenticità della relazione richiede una qualità di apertura, di riconoscimento reciproco, di esposizione all’alterità che non può ridursi al mero automatismo biologico. Il legame umano è tale quando travalica l’istinto, quando introduce la dimensione simbolica, sociale, etica. È qui che la relazione diventa fondamento sociale della soggettività. La società, dunque, non è un aggregato di soggetti già dati: è ciò che li rende possibili. La persona non precede la comunità, ma ne è l’effetto. Il linguaggio, elemento fondativo della nostra esperienza del mondo, è sociale prima che individuale; il desiderio, come insegna Lacan, è sempre il desiderio dell’Altro; perfino il corpo, nella sua postura e nel suo senso, è plasmato culturalmente.
Pertanto, l’umanità dell’uomo è un compito, non una dotazione. Si tratta di umanizzarsi attraverso l’altro, di farsi soggetto nella rete del riconoscimento, della responsabilità, della cura. Non siamo esseri che si relazionano: siamo relazioni che si fanno essere.
G

Andrea ha detto...

Vero G, viviamo in un’epoca che ci spinge verso l’individualismo. Siamo connessi a migliaia di persone attraverso i social, ma spesso ci sentiamo soli. Circondati da parole, ma raramente ascoltati. Presenti ovunque, ma poco riconosciuti. E allora una domanda si fa urgente: chi siamo davvero, al di là delle maschere, dei profili, delle apparenze?
Per rispondere, dobbiamo sfidare un’idea molto radicata: quella secondo cui ognuno di noi possieda un “io” profondo, già formato, che poi, se vuole, entra in relazione con gli altri. Questa immagine dell’essere umano come isola autonoma è rassicurante, ma profondamente falsa.
La verità è un’altra: noi nasciamo nella relazione. Non esiste un “io” senza un “tu”. La nostra identità non è un punto di partenza, ma un traguardo che si costruisce ogni giorno nel modo in cui ci leghiamo agli altri. Pensiamoci un attimo: Un neonato non sa chi è. Eppure, inizia a diventare qualcuno grazie agli sguardi che riceve, al calore del contatto, alle parole che gli vengono rivolte. Prima ancora della coscienza, siamo relazione pura. Senza quell’incontro, non solo non potremmo sopravvivere, ma non potremmo nemmeno esistere come persone. E questo vale anche da adulti. Forse ti è capitato di parlare con qualcuno che ti ha fatto sentire davvero visto. In quel momento, è come se ti fossi ricordato chi sei. Come se, attraverso quello sguardo, quella parola gentile, quella presenza vera, qualcosa dentro di te si fosse ricomposto. Oppure, al contrario, hai vissuto periodi in cui ti sei sentito invisibile. Inascoltato. Escluso. E forse proprio lì, hai capito quanto il valore che diamo a noi stessi dipenda anche, e profondamente, dalla qualità delle relazioni che viviamo.
Non basta esserci. Serve esserci insieme.
Una relazione autentica non è solo un contatto: è un’apertura. È lasciare che l’altro ci tocchi, ci metta in discussione, ci trasformi. E questo non accade per istinto: accade quando superiamo l’automatismo, quando scegliamo di riconoscere l’altro come una presenza viva, non come un mezzo, non come uno sfondo. È qui che la relazione si fa umana, e non solo funzionale. È qui che diventiamo persone.
Anche il linguaggio che usiamo ogni giorno è un’eredità sociale. Non lo inventiamo da soli: lo impariamo, lo riceviamo. Persino i nostri desideri non sono soltanto nostri. Desideriamo ciò che vediamo desiderato dagli altri, ciò che il nostro mondo ci insegna ad amare o temere. E il corpo? Non è solo carne e ossa. È anche sguardo altrui, immagine riflessa, simbolo. La postura, il modo in cui camminiamo, ciò di cui ci vergogniamo o andiamo fieri, è profondamente segnato dalla cultura e dalla relazione. Per questo essere umani non è qualcosa che si ha, ma qualcosa che si fa. Umanizzarsi è un compito. Richiede presenza, cura, responsabilità. Significa costruirsi ogni giorno nello spazio fragile ma potentissimo del legame con l’altro. Se oggi ti senti solo, sappi che non sei il solo. Ma sappi anche che non sei incompleto: sei una relazione che attende di essere vissuta. E forse, il tuo volto è ciò di cui qualcun altro ha bisogno per ritrovarsi. Quindi, sono d'accordo anch'io, non siamo solo esseri che si relazionano. Siamo relazioni che si fanno essere.