NOI non diciamo quel che faremo, ma facciamo ciò che diciamo, la vanvera non ci appartiene, NOI non costruiamo ponti a chiacchiere, NOI non costruiamo auto elettriche, perché conosciamo lo status di vita attuale, specialmente quello dei mortidifame under, under 70.000.
I cervelloni dell'auto elettrica non conoscono la periferia delle grandi città, non sono mai passati sotto i palazzoni ad 8 piani della Magliana nuova dove è difficile parcheggiare anche in seconda fila e l'automobile te la devi portare a casa per poterla ricaricare, ma che almeno si potessero smontare le batterie e trasportarle con l'ascensore.
Solo NOI del partito degli under 70.000 avremmo potuto realizzare il sogno immaginifico dell'elettricità in quanto cominciammo ben 3 anni orsono a lavorare sodo, perché è risaputo che A NOI la vanvera nun attacca, NOI siamo usi a risolvere i problemi alla radice e così abbiamo risolto da tempo il problema della ricarica sotto casa ed adesso passeremo a risolvere quello della ricarica autostradale, perché si sa che anche i mortidifame una volta l'anno prendon la maghena e vanno verso il mare generalmente lontano dai luoghi di residenza.
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45 commenti:
Alla Magliana, ma pure a Cinecittà, stanno risolvendo con chilometri di prolunghe rubate a Leroy Merlin.
Senza contare che le macchinette elettriche costano un'assurdità...
Buongiorno Fracatz, buongiorno a tutti.
Fracatz, pienamente in sintonia col tuo pensiero, quindi, parliamo di progresso… ma non quello da salotto chic da politiche green sventolate a pranzo. No, parliamo di un progresso che si spinge nelle fogne della realtà, dove c'è più merda che luce, ma dove noi, i veri "under 70.000", sappiamo cosa significa vivere davvero. Sì, proprio noi, quelli che non si fanno illusioni con le favole della mobilità sostenibile mentre cerchiamo un parcheggio tra gli sfregi di cemento e i cartelloni pubblicitari che promettono felicità solo a chi ha una vita da influencer. Qui la ricarica dell'auto elettrica non è un sogno, è uno scherzo: che, se ci va bene, lo facciamo tra un caffè e l’altro in un bar scalcagnato della periferia, sperando che almeno ci restituisca il resto giusto. La verità è che nel 2025, mentre i cervelloni a Milano parlano di macchine elettriche, qui fuori, nelle zone dimenticate, ci dobbiamo ancora arrangiare con l’auto vecchia di 20 anni che scoppia sul posto ogni volta che cerchi di metterla in movimento.
Perché sì, parliamo di periferia, quella vera, quella che non ha bisogno di teorie ecologiche, ma di aria che non puzzi di rifiuti e di una strada dove non devi fare slalom tra buche e bottiglie rotte. Loro ti vendono un futuro verde come se fosse un mondo in cui possiamo ricaricare i nostri sogni all'angolo della strada con un caricabatterie universale che non esiste. Ma noi? Noi siamo la carne e il sangue, non l’idea di progresso che ti vendono su Instagram. Qui, ricaricare l'auto è un miracolo che nessuno può compiere, nemmeno con un'ora di fila per prendere il caffè. E non parliamo nemmeno di quando decidi di andare al mare, pensi di farti una settimana di relax… peccato che la tua auto elettrica ti lasci a piedi nel bel mezzo dell'autostrada, come un dogma che fallisce miseramente quando cerchi di farlo funzionare nella vita vera.
Questi progressi sono roba da salotti da 3000 euro al metro quadro, dove tutto è bello, pulito, ordinato… ma fuori, fuori la gente si spacca la schiena per far quadrare i conti, e non ha tempo per ascoltare storie di batterie che ti fanno sentire un eroe mentre in realtà ti fregano pure l’aria che respiri. Noi, gente che guadagna meno di 70.000 euro l’anno, sappiamo cos'è davvero il sudore e la fatica. Non ci serve una teoria per capire che il futuro non può essere quello che ci vogliono vendere.
E mentre loro ci parlano di ricaricare il pianeta, noi ci accontentiamo di non farci schiacciare dalla realtà. A meno che non vogliano ricaricare anche la vita delle persone, quelle che davvero vivono il disagio ogni giorno, e non con il cazzo di uno slogan che suona bene nei dibattiti televisivi. Il futuro? La periferia? Te li scordi, amico, perché in un mondo che ti vuole fare credere che la soluzione è mettersi il casco e partire verso l'utopia elettrica, noi sappiamo solo una cosa: quando scoppia la macchina, non è il futuro che te la porta via. È la realtà, quella che nessuno ti racconta, ma che trovi ogni giorno nel traffico del quartiere.
E allora, la ricarica? Una presa in giro. Ma forse il vero progresso sarebbe quello di fare in modo che anche qui, nel nostro mondo, la gente possa almeno pensare di non morire d'aria mentre cerca di sistemare una vita che gli altri si sono dimenticati di progettare. Quella sì che sarebbe una vera rivoluzione. E non dico altro, ché tanto questa realtà non te la vendono, te la devi guadagnare.
Ma le auto elettriche non prendono fuoco facilmente? Certe industrie automobilistiche hanno smesso di costruirle. E parecchie stanno ferme perché rimangono invendute. A quanto leggo...
C'cmq una alternativa: "andare a piedi"
È faticoso, lo ammetto soprattutto ad una certa età ma fa bene alla salute e sai il risparmio! A parte le scarpe... 🤣💚👋
andare a piedi non è concesso nemmeno A NOI pinzionati, intorno a casa mia hanno chiuso tutti i negozi e per comprare il pane uso il bus, la macchina una volta a settimana per fare le provviste di sopravvivenza
Ottima e pratica visione, degna di un appartenente agli under 70.000 A proposito, qualora tu fossi nell'età di approfittare dei vari vantaggi riservati ai caporioni, potresti gettarti in politica il partito c'è ed il programma pure, è tutto scritto ed a disposizione qui sul webbe
Risposta a Anonimo 08:44
Bene, la realtà, quella che ci hanno venduto come una lotta quotidiana tra auto scassate e palazzoni senza anima. Ma forse c'è un altro modo di vedere il mondo, uno che non si basa solo sulle cicatrici della periferia, ma sulla forza di ricostruire qualcosa che valga la pena, anche se il nostro paesaggio sembra spoglio di speranza. Non tutto è merda, anche se la vita spesso sembra essere questo, e nonostante la durezza della realtà, il progresso non è una bugia venduta dai cervelloni dei salotti chic. No, il vero progresso non è fatto di batterie che non si ricaricano, è fatto di persone che non smettono mai di cercare, di lottare, di resistere.
Non sono le politiche futuristiche che cambiano le cose, ma l'azione quotidiana di chi si rimbocca le maniche, affronta le proprie difficoltà senza lasciarsi sopraffare. La verità non è nelle teorie ambientali, ma nell’essere in grado di affrontare la realtà con fermezza e determinazione, senza perdere la speranza.
E infine, la vita può essere amara, ma non priva di bellezza, se sappiamo dove cercarla. La vita può essere dura, ma se sappiamo trovare anche un po’ di bellezza nelle piccole cose, non ci resta che continuare a lottare. Non è il progresso che ci raccontano, è quello che costruiamo ogni giorno.
Buona sera. Sono lusingato dal commento che hai fatto, Fracatz.
Risposta ad Anonimo delle ore: 15:41:00
Ecco, l’altro lato della medaglia. Ogni singolo nome che ho appena letto, dal tono rassicurante di chi ci parla di famiglia e legami, al paternalismo di chi ci dice che la salvezza arriva dalla forza dell’individuo, fino all’idealismo di chi ci racconta storie di amore e felicità, non è altro che una manifestazione di una realtà distaccata da quella che viviamo ogni giorno. Ci si racconta di legami che ci tengono insieme, ma cosa succede quando la famiglia stessa è distrutta dalla povertà e dalla disperazione? Cosa rimane quando non ci sono “piccole cose” da celebrare perché ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza? La bellezza di una comunità che si tiene insieme non cambia nulla se quella comunità è già stata lasciata indietro, se i legami si sfilacciano proprio a causa di un sistema che non dà loro più spazio per esistere. Ci dicono che la responsabilità personale è la chiave, ma come può un individuo da solo affrontare un sistema che lo opprime? Quando il sistema stesso è rotto, il singolo non può fare altro che soccombere. Quella responsabilità che ci invitano ad abbracciare, quando è mal riposta in un contesto di disuguaglianza e mancanza di opportunità, diventa solo una colpa da caricare sulle spalle di chi già vive nel disagio. La realtà è che non è questione di "prendere in mano la propria vita", ma di creare una società che permetta a tutti di farlo, non solo ai pochi che possono permettersi di farlo. E alla fine, le belle storie romantiche non ci servono. Non serve l’amore idealizzato per risolvere i problemi concreti di chi vive nella povertà; serve un cambiamento radicale, che non parte da una bella storia, ma da un impegno vero, dalla creazione di opportunità reali.
Quindi, no, il progresso non è nella cura del proprio giardino interiore o nel ritrovare se stessi dentro un sistema che continua a sprofondare. Il progresso, se vogliamo davvero cambiarlo, è smettere di vendere illusioni, è cominciare a costruire un mondo che non sia solo per chi ha il lusso di permettersi il benessere, ma per chi vive ogni giorno nel sudore della vita vera, senza fronzoli e senza belle parole. E il futuro? È quello che costruiremo con le mani, non con le parole.
Risposta Anonimo 17:03
La tua visione della realtà è intrigante, ma credo che stiamo facendo un errore grosso nel concentrarci solo sulla disperazione e sull’incapacità di cambiare le cose. La verità è che, anche se la situazione è difficile e la lotta quotidiana è dolorosa, non possiamo solo arrenderci. Sì, il sistema è marcio, ma non dobbiamo restare intrappolati nell’idea che tutto sia senza speranza. Esistono opportunità, anche nei luoghi più sfortunati, per ricostruire qualcosa di significativo. Non sono solo le infrastrutture e la politica che contano, ma anche i legami umani che resistono a tutto, anche alla miseria sociale. Questi legami, se ben coltivati, possono diventare il fondamento di una comunità più forte, anche in periferia. Non voglio dire che il "progresso" che ci propongono sia la risposta a tutto, ma non possiamo dimenticare che ogni cambiamento parte da piccoli passi, dalle scelte quotidiane. E ogni singolo individuo ha il potere di determinare, almeno in parte, il proprio destino. Non possiamo fare a meno di credere nella responsabilità personale e nella nostra capacità di adattarci, anche quando la situazione sembra disperata. L’amore, i legami e la speranza sono risorse che non possiamo ignorare, anche se sembrano ridicole in un mondo che ci vuole consumatori senza anima.
Il vero cambiamento arriva non solo da politiche ecologiche, ma dal modo in cui affrontiamo la vita giorno dopo giorno, dalle piccole azioni che, accumulandosi, fanno la differenza. Il progresso non deve essere inteso come una grande rivoluzione tecnologica, ma come un continuo miglioramento delle nostre condizioni di vita attraverso l’impegno personale, la comunità e l’amore che possiamo creare anche in un mondo che sembra averci dimenticato.
Buona sera: Risposta ad Anonimo: 18:37:00
Perdonami, ti ho risposto dove ti ho scritto un testo molto potente, crudo e sincero, che colpisce nel segno. La mia visione del progresso non si limita alle teorie utopiche e ai sogni venduti nei salotti benestanti, ma si radica nella realtà vissuta da chi è costretto a fare i conti con la fatica quotidiana e con le ingiustizie di un sistema che spesso sembra dimenticare le persone reali, quelle che non vivono nei centri delle città, ma nelle periferie, nelle zone marginali. Ho fatto emergere un contrasto forte tra l’idea di progresso che ci viene propinata e la dura verità di chi lotta per sopravvivere. Il mio punto di vista evidenzia quanto il concetto di "futuro" possa sembrare lontano per chi vive in condizioni difficili, in un mondo che sembra non offrire soluzioni concrete. La critica alla "mobilità sostenibile" e ai progressi tecnologici visti come una panacea è affilata, ma anche necessaria, perché mette in discussione la disconnessione tra chi propone certi cambiamenti e chi, invece, vive nella realtà dei fatti, fatta di macchine vecchie, strade dissestate e una vita che non può essere risolta con slogan.
Al contempo, la mia risposta alla visione ottimistica di un futuro migliore è anch’essa un appello alla realtà: "costruire un mondo che non sia solo per chi ha il lusso di permettersi il benessere". Quella frase racchiude molto del senso di quello che sto dicendo. La vera rivoluzione è quella che parte dal basso, dalle persone che ogni giorno lottano per far quadrare i conti e non hanno il tempo o le risorse per inseguire utopie tecnologiche che sembrano lontane anni luce.
In generale, mi sembra che il mio testo sta facendo una critica a chi propone soluzioni che non tengono conto delle vere difficoltà della gente. È un richiamo alla necessità di risolvere i problemi concreti, senza perdere di vista l'umanità e la dignità delle persone, e senza farsi sedurre da una visione del mondo che, troppo spesso, è lontana dalla quotidianità di chi davvero deve lottare per un futuro migliore.
In sintesi, è un pensiero forte e dirompente, che sfida l'idealismo, ma senza rinunciare alla speranza. La risposta al progresso non è tanto nel rifiutare ogni cambiamento, ma nel chiedere che questo cambiamento sia reale, visibile, e che parta da chi vive nel disagio.
Sull'ultimo commento, quando avrò un po' di tempo.
II Risposta 18:37:00
La tua visione della realtà è affascinante, ma rischia di sottovalutare un aspetto fondamentale: siamo immersi in un sistema che non cambia solo con la speranza e la "resilienza" individuale. La realtà è ben più cruda e, se vogliamo essere onesti, non possiamo ignorare il fatto che tutto questo, le difficoltà, le ingiustizie, sono il risultato di un ordine sociale che non offre soluzioni a chi vive ai margini. C'è una verità che non possiamo nascondere: il sistema stesso è marcio, e non possiamo pensare che "legami umani" e speranza risolvano le problematiche strutturali che ci opprimono. Questa è una forma di evasione, un modo per distrarsi dalla vera lotta che dovremmo affrontare: quella di cambiare il sistema che continua a marginalizzare.
Quando parli di “progresso”, cadi in un errore tipico: credere che, con un po' di buona volontà o di coraggio, possiamo affrontare tutto. Ma la realtà è che il vero progresso non è fatto solo di individualismo e sforzi personali. Esiste un insieme di forze molto più grandi che agiscono contro chi non ha i mezzi per opporsi. La tua visione idealistica ignora le strutture di potere che perpetuano la disuguaglianza. Non è questione di "rimanere aggrappati alla resilienza", è questione di combattere per cambiare le strutture stesse che creano questo disagio.
E poi, non possiamo dimenticare che l’idea di "resilienza" proposta come chiave di salvezza è proprio una narrazione che il sistema ci impone per farci restare in silenzio, per farci credere che la colpa del nostro stato sia tutta nostra, mentre in realtà le forze che ci opprimono sono molto più radicate e difficili da combattere.
Non basta "fare un passo alla volta" per risolvere un problema che è culturale, politico e sociale. La vera rivoluzione è collettiva e va oltre i piccoli miglioramenti quotidiani. È un cambiamento radicale che deve riguardare l’intero sistema e le sue fondamenta. Non possiamo rimanere in questa visione ristretta che ci fa pensare che la lotta sia solo individuale o che le risposte si trovino nei legami emotivi. La vera rivoluzione è pensare in modo più ampio, in termini di struttura sociale e potere, e smettere di accettare un mondo che ci schiaccia, anche sotto le migliori intenzioni.
Anonimo 21:48
La tua visione della realtà è troppo riduttiva e complessa allo stesso tempo. Non possiamo rimanere prigionieri di una visione che riduce tutto a un gioco di lamentela. La verità è che, se continuiamo a concentrarci solo sulla disperazione, finiamo per non vedere le soluzioni che sono già davanti a noi. L’individualismo non è un male, anzi, è la chiave per sfidare lo status quo. L'unico modo per risolvere le difficoltà che incontriamo ogni giorno è prenderci la responsabilità della nostra vita, della nostra esistenza. Il sistema che tanto critichiamo non si cambia con la rassegnazione, ma con l'azione individuale. Ogni passo che facciamo, ogni scelta che prendiamo, ha il potenziale di cambiare qualcosa. Non dobbiamo attendere che qualcun altro ci salvi.
Non possiamo rimanere bloccati in una visione passiva del mondo. La cultura della vittima che tu sembri abbracciare è proprio ciò che il sistema vuole alimentare, per mantenerci controllati. La salvezza non è nell'attendere il cambiamento dalle élite o dalle politiche lontane da noi. La verità è che solo attraverso il coraggio di affrontare la nostra realtà con determinazione e sacrificio, senza cercare scuse, possiamo superare la miseria in cui ci troviamo. Sì, le difficoltà sono reali, ma la risposta non è nell'accettarle passivamente, ma nel confrontarci con esse con una forza che nasca dentro di noi. Se non prendiamo in mano la nostra vita, se non lottiamo ogni giorno per qualcosa di migliore, non possiamo aspettarci che il futuro ci sorrida
Risposta ad Anonimo: 05:50:00
Invece tua visione, purtroppo, non fa altro che alimentare il circolo vizioso della passività. Parli di difficoltà quotidiane come se fossero l'unica realtà che possiamo accettare, ma la verità è che continuando su questa strada, perdiamo di vista ciò che dovremmo davvero combattere. La società che descrivi, con la sua rassegnazione e le sue giustificazioni, è una società che accetta senza riflettere ciò che le viene imposto. Non possiamo ridurre il cambiamento a un mero atto di adattamento individuale, perché la radice del problema è una cultura che ci sta consumando dall'interno.
Non possiamo limitare la nostra risposta a un confronto con la realtà basato solo su piccole azioni quotidiane. L'unica via per cambiare davvero il nostro destino è abbracciare una visione radicale, un pensiero che non si piega alle narrazioni dominanti. Il progresso che ci viene venduto è solo un velo che nasconde il marciume che sta sotto. Non è sufficiente accettare il cambiamento come un piccolo passo alla volta, perché tutto ciò non fa altro che perpetuare il sistema di disuguaglianza che ci sfrutta. Le tue parole sulla resilienza, sull’affrontare la vita con speranza, sono il riflesso di un pensiero che non ha il coraggio di guardare il problema per quello che è.
Questo non è solo un errore, è un tradimento della nostra capacità di pensare al futuro in modo diverso, in modo radicale. Non possiamo rimanere intrappolati in un mondo che ci insegna a vivere in piccole e insignificanti vittorie quotidiane. La società ha bisogno di un cambiamento profondo, una rivoluzione che non si può risolvere con un atteggiamento individualista, ma con un’azione collettiva che metta in discussione tutto ciò che ci è stato imposto. Non si tratta solo di reagire alla miseria del mondo, ma di sfidare la sua struttura stessa. Non possiamo più permetterci di vivere secondo le regole che ci sono state imposte.
Chiedo scusa, ma potrei avere qualche informazione? Chi fa il garante di questo partito? E bisogna pagarlo 300.000 euro come nel movimento, oppure è un po' più economico, tipo una tariffa 'sconto settimana'? Grazie mille per la risposta, sono davvero curioso di sapere come funziona questo mondo!
Qui a Genova le colonnine per la ricarica delle auto elettriche sono quasi inesistenti. Mio marito (75 anni) io (73) abbiamo pensato di non rinnovare più la patente. Con i soldi del bollo, dell'assicurazione e dei collaudi, ci possiamo permettere quando necessiterà, la chiamata di un taxi. Per ora le gambe funzionano per cui pensiamo di aver risolto il problema.
Viviamo un'epoca che ci chiede costantemente di andare avanti, di rinnovare, di adattarci, eppure ci troviamo sempre più spesso a chiedere quanto possiamo davvero permetterci di fare. Non è solo una questione di denaro, ma di dignità, di giustizia. I costi che la società ci impone, dall’assicurazione al bollo, dai collaudi all’acquisto di un mezzo che ormai sembra necessitare di una batteria più che di un motore, non sono solo numeri su una fattura. Sono scelte imposte, che calano pesantemente sulla nostra vita quotidiana. Siamo una generazione che ha visto il mondo cambiare velocemente, ma non sempre in meglio. Abbiamo vissuto la libertà di poter viaggiare, di fare scelte per noi stessi, ma adesso ci troviamo a dover decidere se rinunciare a un diritto che sembrava conquistato o essere inghiottiti da un sistema che ci lascia indietro. L’auto elettrica, con le sue colonnine quasi introvabili, è solo l'ennesima dimostrazione di come le soluzioni tecnologiche diventino privilegio di pochi, un lusso che non possiamo più permetterci. La libertà di movimento, che un tempo dava un senso di indipendenza, oggi ci appare come un miraggio. Non rinnovare la patente non è una scelta facile. Non è un desiderio di rinunciare, ma la consapevolezza che la vita si può vivere anche senza. Eppure, la verità è che non è solo un fatto personale. Non possiamo ignorare che la pressione economica spinge molti, come noi, a ridurre le proprie possibilità, a sacrificare ciò che una volta sembrava normale, ma che ora è diventato un lusso. I soldi che prima andavano per la macchina ora andranno per qualcos’altro, ma non è solo una questione di economia. È una domanda che interroga la giustizia di un sistema che obbliga a scelte impossibili, e il peso che queste scelte comportano, specialmente per chi non ha più la forza di lottare contro un mondo che non li ascolta. Siamo stanchi di rincorrere la modernità, di essere etichettati come "vecchi" quando, in realtà, siamo solo esausti di un modello che ci consuma senza darci davvero nulla in cambio. Non è solo la nostra lotta; è quella di chi, come noi, è costretto a fare i conti con un futuro che non offre più certezza, che non rispetta i diritti dei più vulnerabili. Il nostro cammino è una risposta silenziosa a tutto questo. La nostra scelta, seppur dolorosa, è una presa di posizione: non possiamo più accettare di essere inghiottiti dalla morsa di un sistema che ci vuole sempre più poveri, sempre più distanti da ciò che un tempo ci apparteneva. E il nostro passo, ora più lento ma più forte, vuole ricordare che non siamo solo numeri in un bilancio. Siamo esseri umani, e il nostro diritto a vivere, a camminare, a scegliere, deve essere rispettato, al di là di ogni costo.
Da quello che ho capito nessuno sa come fare e come finirà questa storia. Si va a vista. Non è escluso che si torni indietro, anzi molto probabile
Il tuo commento è bellissimo e scritto veramente bene. Sai cosa mi ha veramente intristito in questo periodo? Dopo una vita di lavoro (sono andata in pensione a 67 anni) la mia pensione a Gennaio è aumentata di 4 euro. Uno schiaffo che continua a farmi bruciare la pelle. Inoltre non mi sento rappresentata più da nessuno e questo senso di solitudine durante la vecchiaia che ci rende più fragili m' impaurisce. Ti saluto caramente e ti ringrazio.
con la grande dequalificazione dei lavori o diventi caporione statale o privato, oppure si ritorna alla terra, forse resisteranno i chirurghi, ma solo i più bravi
Un saluto anche da parte mia Maratoneta. Fracatz, forza e coraggio. Per me, e per molti di noi, sei l'incarnazione di Gaiman.
Risposta a Fracatz.
In un futuro non troppo lontano, la grande dequalificazione dei lavori aveva ridisegnato il mondo. I mestieri tradizionali, quelli che una volta definivano l'identità e il valore di una persona, erano stati in gran parte sostituiti da intelligenze artificiali o da macchine più efficienti, lasciando la maggior parte della popolazione in uno stato di precarietà esistenziale. Le città, un tempo pulsanti di attività e speranza, si erano trasformate in enormi metropoli di cemento e silenzio, dove solo pochi privilegiati riuscivano a mantenere una posizione stabile, mentre il resto dell'umanità si divideva tra coloro che servivano come caporioni, in un'elite politica o privata, e quelli che avevano scelto di ritornare alla terra, alla vita semplice ma dura dei contadini.
Nel cuore di questo mondo, tre uomini si erano distaccati dalla folla, creando un rifugio per sé stessi e per chi cercava un angolo di speranza. Il primo, un uomo di nome Martin, un tempo scienziato di fama mondiale, aveva trovato nella sua solitudine la forza per reinventare la medicina. Non più semplice chirurgia, ma qualcosa di più profondo: una connessione tra corpo e anima, un tentativo di guarire l'umanità dal suo scollamento con il proprio spirito. Solo i più bravi, come lui, erano riusciti a emergere, superando la competizione con le macchine e dimostrando che l'arte della cura non poteva essere sostituita da algoritmi.
Il secondo, Gaiman, aveva scelto di fuggire dalla rigidità del mondo tecnologico per rifugiarsi nelle storie. Le sue parole, intrecciate tra mito e leggenda, erano diventate una forma di resistenza. I suoi racconti non erano più solo fiabe per bambini, ma armi potenti per ricordare all'umanità che la bellezza, l'immaginazione e la capacità di sognare non potevano essere estinte dalle forze della macchina. Ogni storia che raccontava era un seme, piantato nelle menti dei giovani, per aiutarli a riconoscere il valore della creatività, del mistero e della magia che ancora albergavano in loro.
Infine, Rothfuss, il più introverso dei tre, aveva deciso di coltivare la terra. Non per sfuggire dalla società, ma per insegnare agli altri che la connessione con la natura era l'unico modo per preservare un po' di umanità. Ogni seme che piantava, ogni pianta che cresceva, era un atto di speranza, un segno che l'essere umano poteva ancora sopravvivere non solo grazie alla sua intelligenza, ma anche al suo cuore e alle sue mani. In un mondo in cui il progresso sembrava aver ridotto tutto a una merce, la terra restava l'ultimo luogo dove l'uomo poteva ritrovare la propria dignità.
In questo angolo del mondo, lontano dai riflettori e dalla velocità del progresso, queste figure resistevano. Non erano caporioni, né schiavi della macchina, ma esseri umani che avevano scelto di riscoprire il valore delle cose semplici e vere. Sapevano che la speranza non risiede nelle grandi strutture che l'uomo ha costruito, ma nelle piccole azioni quotidiane, nei gesti di cura, nelle storie raccontate sotto il cielo stellato, e nelle mani che lavorano la terra con amore. E così, mentre il mondo attorno a loro sembrava oscillare tra il caos e la disillusione, questi uomini dimostravano che, nonostante tutto, c'era sempre un modo per l'essere umano di rimanere libero, di trovare un significato. La grande dequalificazione dei lavori, forse, non aveva tolto tutto. Forse, in fondo, aveva solo insegnato che il vero valore non si misura con il denaro o il potere, ma con la capacità di rimanere fedeli a sé stessi e alle proprie radici.
Risposta a Fracatz: Perché ho accostato Fracatz a Gaiman.
Gaiman, in quel suo angolo nascosto tra le ombre di storie dimenticate e miti mai raccontati, trovò la forza di ricordare a tutti la verità che nessuna macchina, nessun sistema potrà mai cancellare: "C'è sempre da lottare per noi... fintanto che il sangue scorre nelle vene". Parole simili erano state scritte secoli prima da un uomo chiamato Fracatz, un visionario che aveva visto, nelle cicatrici del suo tempo, una resistenza che non poteva essere spenta. E proprio come Fracatz, Gaiman sapeva che il cuore umano, nonostante le sfide, non aveva mai smesso di battere con la stessa intensità di un tempo. La lotta non è mai stata contro ciò che ci opprime, ma per ciò che possiamo ancora diventare. Ogni parola che Gaiman pronunciava, ogni storia che narrava, era come un incantesimo, un invito a non arrendersi, a non cedere alla rassegnazione. Perché fintanto che esistono persone capaci di sognare, di lottare, di resistere, anche il mondo più grigio potrà rinascere. C'è sempre da lottare, sì, ma la vera lotta non è quella che vediamo nelle grandi battaglie, ma quella quotidiana dentro di noi: la lotta per non dimenticare chi siamo e cosa possiamo ancora diventare, mentre il sangue continua a scorrere nelle nostre vene.
Se alla fine hai scelto di mollare tutto e dedicarti alla coltivazione della terra, il risultato finale è nobile... va bene lo stesso.
il partito esiste ma non è abilitato dai timbri e dalle firme dei burocrati, quindi chiunque, anche solo per passare dall'altra parte può appropriarsene, però ci vorrà molto tempo e pazienza, perchè gli under 70 son restii a riconoscersi in esso
quando parlo di ritorno alla terra lo faccio per i giovani mortidifame che bivaccano sui divani di casa perchè se si magnano tutte le eredità ricevute nel giro di un paio di generazioni rischiano di tornarci da schiavi in quanto persino la mezzadria è stata abolita dagli acculturati, invece oggi ci sono migliaia di ettari di terreno abbandonati da usucapionare o comprare a basso costo
Ah, il ritorno alla terra! Così affascinante… praticamente un piano strategico per diventare ricchi lavorando la terra, come in un’utopia rurale. Immagina: questi giovani ‘mortidifame’ che, tra un divano e l’altro, si mettono a risanare ettari di terra abbandonata. Peccato che, come ben sappiamo, il primo passo è sapere come non uccidere una pianta (e magari non scoprire troppo tardi che il trattore non è un mezzo di trasporto per la spesa). Ma certo, se gli acculturati hanno distrutto la mezzadria, non ci sarà problema, basterà attaccarsi al primo trattore che passa e il gioco è fatto! E poi, la cosa bella è che se tutto va male, sempre si può contare sull’usucapione per fare il salto di qualità!
Rispondo al commento di Fracatz delle ore 19:12:00
I giovani di oggi, spesso etichettati come "mortidifame" o semplicemente in cerca di una via d'uscita, sembrano aver abbandonato la terra, preferendo rifugiarsi nel comfort di un divano. Un divano che, paradossalmente, non è solo un luogo fisico, ma una metafora di un mondo che ha promesso loro tutto, ma che in realtà ha lasciato poco. Questo rifiuto della terra, questa distanza crescente dalla natura e dal lavoro manuale, non è solo una questione di pigrizia o di desiderio di comfort, ma di una più profonda disconnessione dalle radici, che affonda le sue radici in un cambiamento di paradigma sociale e culturale.
La terra, una volta simbolo di lotta, di crescita e di sostentamento, è diventata quasi un ricordo lontano, un patrimonio che appartiene ai nonni, ma che non si sa più come coltivare. La società contemporanea ha costruito un'idea di successo che si misura in termini di carriera, consumismo e comfort. In questo contesto, la terra è vista come qualcosa di arcaico, un lavoro che non offre gloria immediata o soddisfazione istantanea. L'immagine di un giovane che trascorre la giornata con le mani nella terra appare ormai come una reminiscenza di un passato che non ha posto nel presente.
Eppure, questa preferenza per il divano non è una semplice questione di pigrizia, ma il risultato di un malessere profondo. Un malessere che ha radici nelle aspettative disilluse, in un sistema che promette opportunità ma offre precarietà. La promessa di un futuro migliore, costruito su studio e impegno, sembra essersi frantumata di fronte alla realtà di un mercato del lavoro che non accoglie tutti, che non premia il sacrificio, ma spesso il compromesso. La sicurezza economica è diventata una chimera, e l'incertezza la nuova condizione esistenziale.
Il divano, quindi, diventa una zona di comfort, ma non in senso positivo. È il rifugio dalla frustrazione, dalla paura di un futuro incerto, dalla delusione per un mondo che non offre le opportunità che ci erano state promesse. Non si tratta di una scelta consapevole, ma di una fuga dalla realtà che appare opprimente. I giovani non si rifiutano di lavorare la terra per pigrizia, ma per il senso di impotenza che provano di fronte a un sistema che li ha delusi e che li ha spinti a cercare altre forme di gratificazione, anche se effimere.
La colpa di tutto questo malessere non può essere attribuita a un solo fattore, né tantomeno a un singolo gruppo sociale. Le responsabilità sono molteplici. La società ha trasmesso un'idea di successo che non ha nulla a che vedere con la connessione con la terra o con il lavoro fisico. L'istruzione, in molti casi, non ha più insegnato la necessità di una connessione con la natura o con il mondo rurale, ma ha spinto i giovani verso carriere intellettuali o imprenditoriali, spesso lontane dalla realtà. La cultura del consumo, che è diventata la colonna portante della nostra esistenza, ha trasformato ogni atto in un'occasione di guadagno rapido, mentre il concetto di lavoro come valore in sé è stato messo da parte.
E così, i giovani si trovano in una sorta di limbo esistenziale. Non più legati alla terra, ma neanche del tutto liberi dal peso delle aspettative. Abbandonano la terra non solo perché la vedono come un lavoro duro e poco remunerativo, ma perché sentono che il mondo che hanno ereditato non è più in grado di offrire loro un futuro stabile. Il divano, in questo contesto, diventa l'unico posto dove sentirsi in qualche modo al sicuro, ma anche il simbolo di una generazione che sta cercando un senso che non riesce a trovare. Eppure, non è solo la responsabilità della società. La stessa natura del cambiamento che ha portato alla progressiva disconnessione dalla terra ha anche avuto effetti profondi sulle nuove generazioni. Il culto della velocità, del risultato immediato, della gratificazione rapida, ha ridotto il valore del processo.
Parte II (Commento troppo lungo)
La pazienza e la perseveranza necessarie per coltivare la terra, così come per costruire una vita stabile, sono state sostituite da un desiderio di risultati facili e veloci. In un mondo che cambia troppo rapidamente, dove il futuro è sempre più imprevedibile, i giovani si rifugiano nella passività, cercando conforto in una realtà che non richiede loro alcuno sforzo diretto, ma che offre invece un'illusione di controllo. In fondo, il divano non è solo un simbolo di pigrizia, ma di una generazione che cerca di affrontare un mondo troppo complesso per essere compreso e, soprattutto, per essere vissuto in maniera soddisfacente. La vera sfida per i giovani non è solo riscoprire il legame con la terra, ma riscoprire il valore di una vita che richiede fatica, tempo e, soprattutto, senso. La terra non è solo un luogo fisico, ma anche un simbolo di una vita che, per essere piena, ha bisogno di radici e di un senso profondo di appartenenza.
Io l'ho già fatto da tempo. Ho dato in demolizione l'auto un mese dopo la pensione. Un paio di anni dopo non ho più rinnovato la patente. Ho risparmiato, oltre ai soldi che indichi tu, anche 90 € per il rinnovo. Abbiamo imparato a camminare che, ad una certa età, diventa un guadagno per la nostra salute. Qui, nelle Langhe, andare a piedi, è una goduria indescrivibile.
Tranquillo Fracatz! Fra qualche annetto ci penseranno gli extracomunitari a coltivare la terra. Qui già lo fanno...
purtroppo occorreranno generazioni, perché i giovani d'oggi non hanno mai visto i contadini quando la domenica indossavano la giacca ed andavano a ballare il walzer nelle aie dei vicini, i giovani d'oggi non sanno che se ti entra una volpe nel pollaio ti ammazza tutte le galline (perché le odia) e tu rimani senza uova, il cibo giornaliero, solo perché una testa di cazzo magari ha disposto che è vietato sparare alle volpi che son tanto carine
Buona sera Fracatz, buona sera a tutti voi.
Rispondo al tuo commento delle 10:15:00
Il passato, quel tempo dorato in cui gli uomini erano veri uomini, dove la vita era una lotta per la sopravvivenza... o, come lo vediamo oggi, una versione rustica di “Game of Thrones” con tanto di balli tradizionali e pollai. Ma chi ci ha detto che la vita di una volta fosse così idilliaca? Probabilmente chi non ha mai dovuto fronteggiare una volpe che entra nel pollaio e distrugge tutto, giusto per divertirsi un po’. Ah, la nostalgia! Per quanto riguarda il resto, sappiamo tutti che il "buon vecchio tempo" non era una passeggiata di salute, ma una continua guerra di sopravvivenza tra uomo e natura, e il più delle volte, la natura vinceva.
Quindi, invece di indossare giacche di tweed e agitarsi per un mondo che non tornerà, perché non riflettiamo su cosa fare ora? Le volpi, che sono adorabili per chi le guarda da lontano, svolgono un ruolo fondamentale nel nostro ecosistema, ma non venite a raccontarmi che sono una meraviglia quando ti distruggono il pollaio. Però, il nostro obiettivo oggi non dovrebbe essere quello di tornare ai tempi in cui si poteva sparare a tutto ciò che si muove, ma trovare il modo di coesistere con il caos naturale che ci circonda. Perché sì, signori, dobbiamo evolverci, anche se è più facile rimanere legati a un mondo che, ammettiamolo, avevamo completamente frainteso. E qui arriva la parte più interessante: i giovani. Quei poveri malcapitati che non hanno mai visto una volpe che balla il valzer sotto la luna o un contadino con la giacca domenicale che cerca di tenere in piedi l'intero universo rurale. Ma sono loro che dovranno affrontare il vero problema: come coniugare la realtà tecnologica con quella naturale. Sì, li vediamo tutti impegnati a scorrere sui social e a dare like a video di gattini, mentre la nostra visione idilliaca di "vecchi tempi" svanisce ogni giorno di più. Non hanno visto il "lavoro manuale" o la fatica di portare avanti una fattoria, quindi sono destinati a scoprire il mondo tramite una tastiera… ma dovranno anche capire che la volpe non è un meme da condividere, ma un animale che, se gli lasci un'opportunità, fa una razzia al tuo pollaio. Ah, la triste realtà! Se i giovani oggi non conoscono la fatica di un tempo, è forse perché sono troppo occupati a inseguire sogni di gloria virtuale, dove i pollai sono solo uno sfondo per una foto su Instagram, mentre la vita di campagna diventa sempre più una leggenda metropolitana. Eppure, non possiamo far finta che non esista una connessione, anche se questo mondo ci sembra distante. La verità è che, quando ci ritroveranno a chiedere spiegazioni, dovremo ammettere che forse eravamo troppo occupati a rimpiangere il passato, senza prepararli al presente. La nostra generazione avrà la sua giustizia, non tanto nel raccontare storie romantiche su quanto fosse bello indossare un cappello di paglia e danzare il valzer, ma nel trovare un modo per far fronte alla realtà di oggi. E sì, la verità è ironica: alla fine, non sarà la volpe a dover adattarsi, ma noi.
Rispondo ad Anonimo 14:59
Il passato, spesso dipinto come un'era di puri eroi contadini, dove la lotta per la sopravvivenza era più che una questione di vita o di morte, sembra essere diventato un angolo dorato della nostra memoria collettiva. Ma chi ha davvero vissuto quei tempi, e non semplicemente una versione idealizzata che ci siamo costruiti nelle notti solitarie, sarebbe sorpreso dal contrasto tra la realtà e il mito. Certo, il passato era pieno di difficoltà, ma non si trattava solo di "uomini veri" che combattevano contro la natura, ma di persone che vivevano in una condizione di incertezze quotidiane, con un angosciante presente da affrontare, senza la consolazione della nostalgia. Quel mondo tanto esaltato oggi non era affatto una "versione rustica di Game of Thrones", ma un’esistenza segnata da una sopravvivenza che non aveva tempo per la poesia o per il ballo sotto la luna.
E poi c’è la questione delle volpi. Sì, sono affascinanti, ma non basta fermarsi alla superficie. Se pensiamo che una volpe che entra nel pollaio sia solo una piccola seccatura, forse non abbiamo capito davvero quanto fosse difficile e crudele la vita quotidiana di allora. Non si trattava solo di "coesistere con il caos naturale", ma di combattere costantemente contro di esso, senza il supporto di tecnologie moderne o di un sistema che aiutasse. Dunque, non è affatto detto che dovremmo solo rimpiangere un mondo che non ci è più concesso, come se fosse sempre stato idilliaco. Le difficoltà erano ben più tangibili e la vera sfida non era la volpe, ma la lotta per vivere in un mondo che non conosceva nulla di empatia o di romanticismo.
E se parliamo di giovani, è facile accusarli di essere distratti dai social e dai gattini, ma è proprio questa generazione che ha l'opportunità di ripensare la nostra relazione con la natura e con la tecnologia. Sì, non conoscono la fatica dei campi, ma forse è una benedizione. Non sono più costretti a vivere secondo il modello di un passato che li avrebbe visti inchiodati a un ciclo di fatica e sacrifici senza fine. Il vero problema non è che non abbiano visto la volpe, ma che noi, forse, non li stiamo preparando a comprendere che il passato non era affatto il paradiso che a volte crediamo che fosse. La nostra generazione ha costruito un mondo dove il lavoro fisico è sempre più marginale e dove la vera sfida non è più il "pollaio da proteggere", ma un mondo che cambia a una velocità che noi non possiamo più comprendere.
Non possiamo più romanticizzare un passato che, in realtà, era più crudele di quanto oggi siamo disposti a riconoscere. E se vogliamo davvero fare giustizia, dovremmo smettere di raccontare storie idealizzate sul "buon vecchio tempo" e iniziare ad affrontare il presente. La verità è che, se c’è qualcosa che dobbiamo imparare dai giovani, è che, forse, la nostra nostalgia del passato non è altro che una fuga da una realtà che ci spaventa troppo da affrontare.
Che sorpresa, di nuovo con noi.
Tutto questo per una cazzo di volpe che è entrata nel pollaio e, oltre a fare razzia delle galline, si è pure mangiata anche le uova. E noi qui, a parlare di nostalgia, di come il passato fosse tutto "eroico" e "puro", quando in realtà la vera battaglia era con un animale furbo come un ladro di notte. Non è che i contadini di un tempo stessero lì a cantare balli sotto la luna; stavano semplicemente cercando di non perdere tutto il ben di Dio a causa di una volpe che, senza vergogna, si infilava nei pollai come se fosse il suo ristorante personale. Ti rispondo quando avrò tempo. Ti saluto, a dopo!
Buona sera a tutti.
Rispondo ad Anonimo ora 17:40:00
Il passato non è solo un periodo da idealizzare, ma una realtà complessa e talvolta brutale che ci ha plasmati, anche se oggi siamo troppo occupati a cercare di sfuggirne. Riflessioni come quelle che mettono in discussione il passato e la nostra presunta nostalgia rischiano di fare un grave errore: dimenticare che non è il passato a dover cambiare, ma la nostra comprensione di esso. Non è vero che il "vecchio tempo" fosse solo una lotta per la sopravvivenza, una continua guerra tra uomo e natura. Quella visione romantica non solo è lontana dalla realtà, ma ignora le complicazioni di un'epoca che non aveva né il nostro confort né il nostro scudo tecnologico. Pensare che la vita di allora fosse un continuo "sacrificio eroico" è ridurre una complessa esistenza a un'idea che ci piace di più. Forse, invece di voltare le spalle al passato, dovremmo cercare di capire la forza e la resilienza che ci ha lasciato. La verità è che, se guardiamo al "pollaio da proteggere", non dobbiamo solo considerare la volpe come una piccola seccatura, ma anche la fatica dietro ogni azione. Non c’era solo la natura contro l'uomo; c'era un contesto in cui ogni passo aveva un peso, dove il rischio di fallire non era solo un'idea romantica ma una realtà quotidiana. Ignorare questo non solo svaluta la memoria del passato, ma ci rende incapaci di comprendere veramente il presente. In effetti, forse è proprio questa nostra ansia di "andare avanti" che ci impedisce di imparare davvero da dove veniamo. Perché non si tratta di rifiutare la fatica o di temere il passato, ma di accettare che quella realtà non è meno significativa di quella che viviamo oggi. È facile criticare i giovani, ma loro non sono scivolati in un mondo di sogni virtuali; stanno solo cercando il loro modo di confrontarsi con una realtà che cambia più velocemente di quanto riusciamo a capire.
In fin dei conti, mentre noi rimpiangiamo i tempi passati, i giovani sono impegnati a decifrare il caos che ci circonda, e probabilmente sono proprio loro a possedere la chiave per una nuova comprensione del nostro legame con la natura e con la tecnologia. Noi li guardiamo con sospetto, ma forse è il nostro rifiuto di adattarci che ci impedisce di vedere che il futuro non è qualcosa da temere, ma qualcosa da abbracciare. I pollai, le volpi, i contadini con i cappelli di paglia… sono tutti solo simboli di un tempo che non possiamo più rivivere, e forse, se ci fermiamo a riflettere, dovremmo cominciare a domandarci se stiamo davvero facendo tutto ciò che possiamo per affrontare il presente senza rimpianti inutili. La realtà è che, in fondo, non saranno né i giovani né le volpi a dover cambiare: sarà proprio la nostra visione del mondo a dover adattarsi.
C'è una "colpa" collettiva che dura dalla sbornia del boom degli anni sessanta del secolo scorso, la sbornia del consumismo.
Le periferie sono l'espressione del tumore crescita e sono strutturalmente insostenibili. Prima o poi ciò che è insostenibile crolla.
L'unica cosa sensata sarebbe di prendere atto dei limiti e di iniziare ad agire di conseguenza.
Se il mio campo mi dà 40 q.li di orzo, solo uno scemo può fare piani di indebitarsi come se ne facesse 70 all'anno e poi, costruirci pure sopra una palazzina.
Non sono riuscito a leggere che solo pochi commenti
Ti capisco, anch'io spesso trovo difficile leggere commenti lunghi, soprattutto quando non sono direttamente coinvolto nell'argomento. Tuttavia, credo che le discussioni su temi come il passato e il presente, anche quando sono complesse e articolate, siano importanti per capire meglio come ci relazioniamo con il mondo che ci circonda. Non è sempre facile sintetizzare un pensiero profondo in poche righe, ma apprezzo comunque il confronto. L'importante è non perdere di vista il fatto che ogni punto di vista può aiutarci a vedere la realtà da angolazioni diverse. Anche se le discussioni possono sembrare infinite o complicate, sono proprio questi scambi che ci permettono di riflettere e, magari, cambiare qualche prospettiva. Cercherò di riassumere per quanto possibile. Grazie e buona domenica!
Fracatz, stai ricevendo un Incredibile afflusso di contemplazione silenziosa. Che fine avete fatto?
so tutti afflussi da Singapore, non so chi mi spia, se vedi il grafico degli accessi vicino al contatore c'è un picco con 3000 accessi in un giorno, la stessa cosa mi accadde qualche anno fa e ci scrissi persino un post con la canzone Singapore, vado a Singapord
Ah, ma guarda un po', siamo passati dalle statistiche a un misterioso picco di accessi da Singapore… Addirittura spie! A questo punto, non sarà mica l’influenza della guerra russa che sta facendo impennare gli accessi al tuo blog? Forse qualche agente segreto si sta rifugiando nella tua pagina per scoprire se c'è qualche messaggio segreto nascosto tra le righe. O forse Singapore è diventata la nuova capitale mondiale degli hacker alla ricerca di informazioni vitali su… ehm, come fare il pane in casa o i segreti della musica degli anni '80. Già, la canzone Singapore potrebbe essere il codice segreto che tutti aspettano. Chissà! Ma non preoccuparti, se arrivano spie, almeno saranno ben informate sulle tue preferenze musicali.
Per i picchi, Fracatz, ci vuole sempre gente fuori dal comune, altrimenti si finisce per fare la fine di Letta, che quando era alla guida del PD, il partito è andato tutto a scemare! D’altronde, se non hai almeno qualche spia, hacker o agente segreto che ti visita, che picco è? Un picco di normalità, che non ha nulla a che fare con la vera gloria del web!
Un abbraccio...
ho ritrovato quando mi hakeravano da singapore
https://pornodidattica.blogspot.com/2023/07/singapore.html
Fracatz, prima che tu mi mandassi il link, avevo già dato un’occhiata al post e, devo dire, i tuoi commentatori non sono riusciti a criptare nemmeno l’aiuto che cercavi di dare loro! Visto il livello delle loro competenze, sembrava che tu stessi cercando di suggerire come guadagnare qualche soldo extra senza dover fare quei lavori sottopagati che il sistema ci impone. Ma evidentemente, tra un “cosa significa hacking?” e un “che cos’è un firewall?”, il messaggio si è perso. 😄
Comunque, tornando al picco di accessi da Singapore, che dire... sembra quasi una scena da film di spionaggio! Chissà, magari ci sono agenti segreti che esplorano i tuoi post per scoprire i tuoi gusti musicali o... magari per imparare a fare il pane in casa. Se davvero arrivano spie, almeno saranno ben informate su tutto!
Per quanto riguarda il tuo consiglio di formarsi in informatica, lo trovo davvero utile. D’altronde, vista la tua esperienza, sai bene quanto sia importante avere le competenze giuste per muoversi in un mondo così pieno di rischi. Un buon corso su Cybersecurity potrebbe davvero fare la differenza, soprattutto per capire chi si nasconde dietro questi misteriosi picchi di traffico!
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