10 giu 2025

Soldi buttati, ancora una volta

 Pure questa volta siam sopravvissuti, il referendum è andato, i lavoratori ai seggi si son messi in tasca qualche solderello per ben due giorni di duro lavoro e speriamo che gli studenti ed i disoccupati ne abbiano approfittato.
Ma come si fa, dico io, come si fa a buttare i soldi dei contribuenti per un referendum, quando ormai anche alle politiche, che sono le uniche elezioni importanti che anche NOI del partito degli under 70.000 abbiamo nel programma, anche alle politiche si raggiunge a malapena un'affluenza del 50% ?
E poi sputtanarsi da tutti i pulpiti quando bastava anche un bambino e non solo la Meloni a prevedere come sarebbe finita. Ora tutti sappiamo cosa recitano i nostri codici e cioè raccolte le firme e convalidate, se il referendum raggiunge il quorum, allora agli organizzatori viene rimborsata la somma delle spese sostenute  per la campagna referendaria, fino ad un massimo di un milione di euro. NOI matematici e democratici del partito degli under 70.000, non aboliremo il referendum, però aggiungeremo un paio di righe e cioè che in caso di mancanza del quorum gli organizzatori dovranno ripagare allo stato tutti i soldi spesi per la sua realizzazione, responsabilizzando tutti coloro che firmarono per la realizzazione.

e poi come sempre abbiamo chi vuole sempre il top e chi lo rifiuta , mai 'na gioia 


23 commenti:

blogredire ha detto...

Bè, mi sembra abbastanza evidente che coloro che hanno deciso di fare sto referendum abbiano dei cervelli di bambini... molto sottosviluppati, comunque io e consorte siamo andati a votare.
Un saluto

Anonimo ha detto...

Qui entra in scena Totò:e io pago!

Anonimo ha detto...


Come sempre, il referendum è stato una farsa annunciata, un altro spreco di risorse pubbliche in un sistema che sembra ormai vivere di illusioni democratiche. Ci chiediamo, infatti, quanto tempo ancora potremo continuare a vedere operazioni di questo tipo, senza che nessuno si assuma la responsabilità delle conseguenze. È quasi ironico, se non fosse tragico, pensare che in un Paese dove alle politiche si fatica a superare il 50% di affluenza, si continui a insistere con iniziative che non hanno alcuna speranza di coinvolgere veramente la popolazione.
Quello che manca, in realtà, non è l’opportunità di votare, ma una cultura della partecipazione che sappia andare oltre le solite consultazioni inutili. È evidente che l’attuale sistema referendario è lontano dall’essere un mezzo di vera partecipazione popolare. Lo dimostra il fatto che, nonostante l’accesso relativamente facile, nessuno sente veramente il bisogno di intervenire. La proposta di un rimborso agli organizzatori in caso di mancato quorum, quindi, non è solo sensata, ma necessaria per evitare che chi gioca con la democrazia a costo zero continui a farlo senza nessuna conseguenza. In questo senso, il tuo partito, gli “under 70.000”, ha il dovere di dare un segnale forte: l’istituto del referendum non deve essere ridotto a una roulette russa per il portafoglio pubblico. Se l’obiettivo è quello di responsabilizzare chi promuove iniziative così costose e inefficaci, allora bisogna agire con fermezza. Non possiamo più permetterci di buttare via soldi in consultazioni che, alla fine, non fanno altro che confermare il disinteresse generale per una politica che non sa più coinvolgere i cittadini. E mentre il Paese naviga in questo mare di cinismo e indifferenza, la vera domanda rimane: se il popolo non è disposto a votare su questioni vitali, cosa ci sta raccontando questo rifiuto collettivo? Forse che la politica, come oggi la conosciamo, ha perso il contatto con la realtà, e in questo vuoto si inseriscono iniziative che non sono altro che una conferma di un sistema che funziona solo per chi sta ai vertici. In attesa di un cambiamento, resto in attesa anche io di vedere se riusciremo finalmente a passare dalla fase delle promesse a quella dei fatti concreti.
G

Andrea ha detto...

Compagni, diciamocelo senza più giri di parole: Giorgia Meloni ha vinto. E non perché sia credibile, coerente o intelligente. Ha vinto perché noi, la sinistra, abbiamo completamente smesso di esistere come forza politica reale. Siamo diventati commentatori, analisti di noi stessi, custodi di un moralismo vuoto e di una grammatica perfetta per chi non ha più nulla da dire. Meloni era quella che urlava “mai più servi degli americani”, “basta con l’Europa dei burocrati”, “difenderemo i confini con le unghie e coi denti”. Oggi eccola lì: perfettamente allineata a Trump, seduta ai tavoli dell’Occidente che conta, pronta a firmare ciò che serve, pur di non disturbare il manovratore. Ma nessuno la incalza, nessuno la sbugiarda. Perché? Perché noi a sinistra siamo troppo impegnati a compilare agende valoriali e a difendere la nostra reputazione accademica. La sinistra, quella che doveva rappresentare gli ultimi, non sa più nemmeno chi siano. Parla di "giustizia sociale" ma solo quando può farlo davanti a un microfono RAI. Organizza incontri sull’inclusione, ma dimentica il carrello della spesa. E mentre nei quartieri popolari cresce la rabbia, noi ci presentiamo con la mozione approvata al 74% al congresso federale della Federazione dei Giovani Progressisti. Ridicoli.
Meloni ha detto tutto e ha fatto l’opposto. Ma ha capito una cosa: il potere si conquista parlando chiaro e agendo senza scrupoli. Noi invece passiamo il tempo a chiederci se dire "compagni e compagne" sia abbastanza inclusivo, mentre ci portano via tutto: lavoro, sanità, scuola, voce. Il referendum? L’ennesima dimostrazione del nulla. Abbiamo promosso una battaglia giusta con strumenti sbagliati e senza crederci davvero. Mentre loro hanno usato l’astensionismo come arma politica, noi ci siamo persi nel dibattito sul quorum come se fosse una questione di diritto canonico. Nessuna mobilitazione. Nessun fuoco. Solo post indignati e trecento firme raccolte tra i licei classici.
Il punto è questo: Meloni è forte perché noi siamo deboli. Non abbiamo un linguaggio, un leader, un progetto. Abbiamo solo un riflesso condizionato: indignarci. Ma indignarsi non basta più. O si torna a parlare il linguaggio del conflitto e del riscatto, o è finita. E mentre Trump ridisegna il mondo con un tweet e Meloni si adatta come una serva zelante, noi litighiamo su chi deve parlare per primo sul palco dell’ennesima kermesse democratica. È finita, compagni. Ma il peggio è che non lo abbiamo nemmeno capito.

fracatz ha detto...

e poi, come in questo caso, buttare dei soldi per cancellare leggi scritte da caporioni pagati dal bobbolo per migliorare l'esistenza dei mortidifame, ma è chi che comanda per 5 anni che deve capire ciò che è giusto e ciò che va cancellato, altrimenti chi comanda viene deresponsabilizzato e ce lo troviamo al governo per altri 5 anni

Anonimo ha detto...

Compagni? Io Andrea non sono compagno di nessuno. Solo il giusto...Tanti anni fa scrissi a Fracatz che una foresta si rigenera dopo il fuoco. Ecco, Andrea, la mia linea. Non dimenticare mai la "foresta" quando scrivi a me.
G

Anonimo ha detto...

@G
"se il popolo non è disposto a votare su questioni vitali, cosa ci sta raccontando questo rifiuto collettivo?"

Ma io ci vedrei una risposta già internamente al quesito stesso.Il condizionale mette a fuoco "questioni vitali", quanto magari è proprio perché non sono ritenute questioni vitali per come sono state esposte una delle cause di astensionismo collettivo.

Se proviamo a fare un giro tra i blog molti di essi danno la propria versione facendo comunella con tutti coloro che parlano di astensionismo e menefreghismo su queste benedette questioni vitali.I cinque punti del referendum specchietto per le allodole e le allodole attratte da questi sprazzi di luce sono prede migliori per i "cacciatori".

Anonimo ha detto...


@Anonimo
Hai ragione nel mettere in discussione la definizione di “questioni vitali”. In effetti, se bisogna precisare che lo sono, forse non lo sono davvero, o meglio, non lo sembrano a chi dovrebbe sentirsele addosso come urgenza. Ma allora la domanda si sposta: perché non lo sembrano più?
Perché una riforma del lavoro, una legge sulla cittadinanza, perfino il diritto a un contratto decente non generano più indignazione ma solo sbadigli?
Il punto è proprio lì: nella distanza tra chi formula la domanda e chi dovrebbe rispondere. La politica oggi si illude che basti raccogliere firme per “attivare” la democrazia. Ma se nel frattempo hai disattivato il contatto con la realtà sociale, puoi anche scendere in piazza con la Costituzione in mano e l’entusiasmo nei tweet… che la gente resta a casa. Sì, i quesiti erano pasticciati. Sì, l’esposizione è stata opaca. Ma questo non è un problema di comunicazione, è un problema di credibilità. Il popolo non diserta il voto perché è pigro o apatico. Lo diserta perché non si fida più nemmeno delle battaglie giuste, quando arrivano da bocche e partiti che in passato hanno già tradito.
Quindi sì: non erano “questioni vitali”. Non lo erano più. E questo è il vero fallimento, non solo del referendum, ma di chi avrebbe dovuto renderle tali.
G

Andrea ha detto...

Noi arriviamo con le salsicce e il pane duro. E magari pure una tanica di benzina, giusto per evitare che il falò diventi un'altra fiaccolata. Perché se questo è il fuoco della sinistra, allora tanto vale spegnere la brace con una bestemmia e tornarsene al bosco.

Anonimo ha detto...

Elly Schlein è arrivata come "vento di cambiamento", ma l’unico spiffero che si è sentito è quello che esce dal portone di Largo del Nazareno quando lo aprono per far entrare gli stessi di sempre. Doveva essere "la segretaria della discontinuità", e invece ha solo riciclato facce e formule, aggiungendoci un tocco glam e una manciata di interviste ben calibrate per chi vive tra ZTL e Terzo Settore.
"Il PD torna nelle periferie" si diceva. Ma nelle periferie, di Elly e della sua sinistra, non si è vista nemmeno l’ombra. Al massimo sono arrivati i volantini. Intanto Meloni presidia i mercati, parla il dialetto del potere, e vince anche quando sta zitta. Schlein invece parla molto, in tre lingue, ma non convince in nessuna.
La sinistra “vicina ai giovani”? Forse quelli del FuoriSalone o dei festival letterari. Ma provate a chiedere a un rider, a una commessa sottoinquadrata, a un precario della scuola cosa rappresenta oggi il PD, e la risposta sarà un misto tra uno sbadiglio e un’imprecazione.
"Costruiamo una nuova partecipazione democratica." Tradotto: facciamo un sondaggio interno, poi decidono sempre gli stessi. "Il lavoro torni al centro." Ma quale lavoro? Il centro semmai è rimasto quello del CV degli ex ministri: consulenze, fondazioni, porte girevoli. "Noi siamo un argine alla destra." Sì, ma l’argine è pieno di crepe, e l'acqua è già passata. Schlein aveva l’occasione di restituire identità alla sinistra, e invece ha scelto il ruolo della testimonial: elegante, civile, corretta, assolutamente inoffensiva. Il partito che avrebbe dovuto rappresentare gli ultimi, gli sfruttati, i dimenticati, continua a parlare come se stesse sempre partecipando a un dibattito tra élite illuminate, dove l’applauso conta più del voto.
Il referendum è stato il termometro perfetto. Zero mobilitazione, zero passione. E soprattutto: nessun rischio. Come sempre. Perché in fondo, il vero slogan non detto è: “Meglio perdere con stile, che sporcarsi per vincere”.
E così resta questa sinistra con la faccia pulita e le mani in tasca, che sogna di cambiare il mondo senza nemmeno provare a sporcarlo un po’. Una sinistra che ama definirsi "pluralista", ma che ha paura del dissenso vero. Che parla di diritti, ma non si accorge che intorno è rimasto solo il silenzio dei diritti perduti. E in questo silenzio, Elly Schlein non guida: accompagna. Accompagna il Partito Democratico verso la sua definitiva trasformazione, da partito di massa a nicchia di coscienze benpensanti, da argine sociale a hashtag progressista. Un’agonia estetica, senza neanche più la forza di una sconfitta tragica. Solo una lunga, dolcissima, irrilevanza.

Anonimo ha detto...



@Anonimo
Hai ragione nel mettere in discussione la definizione di “questioni vitali”. In effetti, se bisogna precisare che lo sono, forse non lo sono davvero, o meglio, non lo sembrano a chi dovrebbe sentirsele addosso come urgenza. Ma allora la domanda si sposta: perché non lo sembrano più?"

Guarda che chi ha messo sostanzialmente in discussione le "questioni vitali " è esattamente la stessa politica che ha attirato solo i pochi elettori simpatizzanti ,per mandare a casa la Meloni. Questo il proposito principale ,negarlo è piuttosto imbarazzante .La questione lavoro è stata sfiorata piuttosto in malo modo con privilegi nei contratti agli intellettuali dimenticando quella stragrande fetta di popolo altroché,quest'ultimo è utile solo per gli utili di potere.Non è che nel referendum mi metti la parola lavoro ed io mi senta già tutelato a priori ,in una sovranità che appartiene al potere di una certa politica.Democrazia è anche astensione verso tutto ciò che non presenta coerenza ma solo contradditorietà per il proprio tornaconto ,veicolando un referendum a surrogato politico.
Se sta cercando di raccogliere dati sig G. per capire questa forma di rigetto collettivo al voto ,dovuta all' acquisizione del senso di strumentalizzazione del popolo ,basta e avanza la risposta avuta e onestamente approvo la coerenza di coloro che si sono astenuti al referendum,all'incoerenza anche di un solo di quegli elettori che ha votato per fini diversi dai punti da referendum. Magari si può anche diventare coerenti in incoerenza ci sta.

Delusi e sfiduciati è fin troppo scontato ,ma direi che" non fidarsi delle battaglie giuste" è un inesattezza dal momento in cui ogni persona componente del popolo sta combattendo in qualche forma la propria personale battaglia,non ha certo bisogno di un'altra forma di politica da simpatizzanti e strategica che procuri sensi di colpa ai "disertori" se non non si sentono rappresentati nel giusto modo.Questa è un arma a doppio taglio che serve anche ad una certa politica,metterci gli uni contro gli altri e far credere alla persona che è soltanto lui il colpevole della sua disgrazia, per causa della sua insufficiente intelligenza e delle sue capacità di discernimento e senso critico.Siamo al top.
Grazie e cordiali saluti

fracatz ha detto...

mi raccomando ragazzi, se volete fondarvi il vostro partito, moderno, serio, questo è il momento giusto per farlo, io col mio degli under 70.000 sbagliai proprio il momento, capirai c'erano freschi e belli i 5 star di Peppe, che s'era pure fatto a nuoto lo stretto di messina..
Appozzate pure al mio programma che è tutta robba bbona e calcolata ve lo consento volentieri, perchè ci sarebbe tanto bisogno di un miglioramento

Anonimo ha detto...



@Anonimo
Ti ringrazio per la risposta articolata. In parte condivisibile, in parte utile per chiarire meglio le differenze tra rigetto attivo e semplice disillusione. Però permettimi qualche nota:
che la politica abbia costruito un referendum come strumento strategico (e quindi poco credibile) è esatto. Che il suo fine vero fosse mandare a casa la Meloni, è probabile. Ma questo, se ci pensi, non nega il punto: lo conferma.
Perché quando la politica “infila” la parola lavoro dentro un contenitore opaco, lo fa sapendo che quella parola dovrebbe mobilitare, e invece non muove più nulla. E questo è drammatico, non per la parola, ma per come è stata svuotata.
Dici giustamente che “non basta scrivere lavoro per sentirsi rappresentati”. Ma è proprio lì il fallimento: nel credere che basti un’etichetta per attivare la partecipazione. La crisi è nel contenuto, non nella parola.
Riguardo al fatto che “ognuno combatte la propria battaglia personale”, vero anche questo. Ma proprio per questo serve una politica che riconosca quei conflitti, non che li sfrutti o li ignori. E invece, come scrivi bene tu, una certa politica ha trasformato persino la partecipazione in colpa: o voti come vogliono loro, o sei tu il problema. Astenersi, in certi casi, è un atto lucido. Lo diventa però solo quando è accompagnato da un pensiero critico, come il tuo, e non da un semplice “non mi fido di nessuno”.
Infine: la sfiducia verso tutte le battaglie rischia di diventare un’arma spuntata. Capisco la rabbia, ma se anche le istanze giuste vengono archiviate come “strumentali”, non resta che il silenzio. E il silenzio, spesso, non cambia nulla.
Per questo serve distinguere: non tutte le proposte sono uguali, e non tutti quelli che si sono astenuti lo hanno fatto con lo stesso grado di coscienza. Farlo passare per coerenza collettiva mi sembra rischioso. Anche il potere ringrazia, quando il popolo non si presenta.
G





Anonimo ha detto...

La sinistra italiana non l’ha persa Meloni. L’ha persa da sola, quando ha smesso di opporsi, di distinguersi, di scegliere. È bastato l’appello al senso di responsabilità, ed eccoli lì: ministri in governi tecnici, reggicoda del rigore, coprotagonisti delle peggiori riforme “neutre”, dal Jobs Act alla Buona Scuola, passando per tagli lineari e patti di stabilità firmati con penne che odoravano di Bruxelles. Le larghe intese, per la sinistra, non sono mai state un piano. Sono state un suicidio lento, firmato a rate. Hanno confuso l’unità con la resa, il compromesso con la cancellazione di sé. E mentre a destra gridavano “traditori”, da sinistra rispondevano con un sussurro: “abbiamo evitato il peggio”. Ma quel “peggio” è arrivato lo stesso. Si chiama astensione. Disillusione. Fuga dal voto. Ricordiamo bene il PD che si accorda con Alfano. O quello che sostiene Monti in nome dell’Europa. O quello che lascia a Draghi i tasti del pianoforte e si limita a girare le pagine. In nome della stabilità hanno sacrificato tutto: conflitto, radicamento, popolo.
E quando poi c’è stato da rifare identità, si sono presentati con slogan sulla giustizia sociale dopo aver votato la legge Fornero. Hanno parlato di inclusione dopo aver spalancato le porte ai decreti sicurezza. Hanno detto "lavoro" dopo averlo flessibilizzato fino a polverizzarlo. Le larghe intese non hanno allargato nulla. Hanno ristretto lo spazio della politica vera, ridotto l’opposizione a un’opzione morale, e lasciato campo aperto alla destra più compatta di sempre.
In fondo, non è Meloni che ha cancellato la sinistra.
È la sinistra che ha firmato la delega. Con penna blu. E silenzio complice.

Andrea ha detto...

Esatto anonimo, avrebbe dovuto dire no. Non per partito preso, ma per dignità politica. Perché a un certo punto della storia, il compito della sinistra non era “stare in maggioranza”, ma difendere chi fuori non aveva più voce. E invece ha scelto l’aria condizionata dei ministeri, la mediazione permanente, il tavolo tecnico dove la povertà si discuteva in powerpoint. Avrebbe dovuto alzare lo scontro: fare opposizione dura a chi, in nome del rigore, tagliava sanità e scuola. Dire chiaramente: questa non è la nostra agenda, e non la sosterremo nemmeno con una mano sola.
Invece ha mormorato un “sì critico” a ogni manovra, facendo da sfondo a governi che non avevano nulla di popolare.
Avrebbe dovuto uscire dalla stanza, non restarci per “vigilare”. Perché quando resti in una stanza dove si decide contro i tuoi principi, non sei un correttore: sei un complice.
Avrebbe dovuto tornare nei luoghi reali: fabbriche, piazze, mercati. Ma ha preferito le fondazioni, i simposi, i tavoli inclusivi dove si discuteva di “governance” e “sostenibilità narrativa”.
Intanto fuori la gente cercava un medico, un contratto, un treno regionale che arrivasse in orario.
Avrebbe dovuto prendere le sconfitte, e farne base di ripartenza. Invece ha gestito le sconfitte come se fossero pause di governo, aspettando il prossimo giro di tavolo per rientrare dalla finestra.
E soprattutto, avrebbe dovuto scegliere per chi stare, e smettere di voler piacere a tutti.
Perché quando vuoi piacere a tutti, alla fine non rappresenti nessuno.

allegropessimista ha detto...

Intanto erano collegati a quello sulla riforma di Calderoli, bocciata dalla consulta. Se ci fosse stata anche quella si sarebbe raggiunto i quorum

Anonimo ha detto...

È probabile che con il referendum sulla riforma Calderoli in campo si sarebbe smosso qualcosa in più, almeno a livello emotivo. Ma se un’iniziativa popolare regge solo sul traino di un’altra, allora forse è già zoppa in partenza.
Significa che i cinque quesiti attuali non sono bastati a mobilitare, nonostante fossero presentati come “questioni vitali”. E questo ci riporta al cuore del problema: una distanza abissale tra chi formula e chi vive.
Inoltre, confidare nel quorum “accidentale” è già una sconfitta culturale: vuol dire non saper costruire un coinvolgimento autentico, ma sperare nel traino, nella rabbia per altro, nella somma di malumori.
E la politica che si nutre di questi incastri, referendum di rimbalzo, emozioni collaterali, rabbia presa in prestito, non è partecipazione. È disperazione con scadenza.

Anonimo ha detto...

@Fracatz
Eh, lo capisco Fracatz... il timing è tutto. Tu con gli under 70.000 eri già avanti, ma il Paese stava ancora in piena sbornia grillina, con Peppe che faceva il mistico e il maratoneta insieme, si buttava a nuoto nello Stretto e intanto si portava via pure le tessere elettorali dei pensionati. Che vuoi farci: hai lanciato la navicella prima che la rampa fosse montata.
E oggi? Oggi è il momento perfetto: la politica è talmente sgonfia che basterebbe un partito con tre idee chiare, una panchina al parco e due slogan che non sembrino scritti da un algoritmo in crisi di mezza età.
Il campo largo è diventato un buco nero, le sinistre litigano anche tra i cloni, e la destra... be’, quella non ha nemmeno bisogno di parlare: basta che faccia finta di governare.
Quindi sì, chiunque voglia fondare qualcosa, parta pure dal tuo programma, è ancora più fresco di quelli depositati in Cassazione. L'importante è non rifare l’errore tragico di sembrare seri. Quelli seri non li vota più nessuno.
E se poi nel programma c’è spazio per la salsiccia politica ben rosolata, io mi prenoto. Anche solo per portare il vino e accendere il fuoco, che su quello ho un minimo di esperienza.
G

Andrea ha detto...

Scusate l'assenza in questi giorni...

📍 2011 – Il PD appoggia Monti senza passare dal voto
Il governo tecnico nasce per “salvare l’Italia”, ma le ricette sono quelle del rigore: tagli alla spesa sociale, aumento dell’età pensionabile (legge Fornero), zero attenzione per il lavoro precario. Il popolo paga, i partiti applaudono. Il PD sostiene tutto con disciplina, lasciando che la sinistra sociale evapori.
📍 2014 – Renzi lancia il Jobs Act
La riforma che doveva “creare lavoro” smantella l’articolo 18 e precarizza i rapporti di lavoro. Il Partito Democratico, che dovrebbe tutelare i lavoratori, diventa il regista della flessibilità a vita. Chi stava in fabbrica o con contratti a termine capisce che il PD non è più il suo partito.
📍 2015 – La Buona Scuola
Una riforma calata dall’alto, con premi, punizioni, e un’idea aziendale dell’istruzione. Insegnanti, precari, studenti protestano. Il PD tira dritto. Il mondo della scuola, storicamente di sinistra, si allontana.
📍 2018 – L’appoggio indiretto al governo Draghi (2021)
M5S, PD, Forza Italia e Lega insieme nel governo “di salvezza nazionale”. Ma l’unione fa la confusione. Riforme imposte dall’alto, nessuna vera inversione di rotta. La sinistra perde identità: dentro tutto, fuori da se stessa.
📍 2022 – Elezioni: il PD si presenta da solo, ma con dentro tutto e il contrario di tutto
Coalizione centrista, nessun linguaggio popolare, candidati da salotto. Meloni vince col “parliamo semplice”, il PD perde senza sapere neppure perché. Eppure aveva avuto tutte le occasioni per distinguersi: non l’ha fatto.
📍 2023-2025 – Elly Schlein e l’opposizione sussurrata
La nuova leadership nasce per “voltare pagina”. Ma si perde in dichiarazioni simboliche e identitarie, mentre il governo Meloni avanza senza freni. Il PD resta in un limbo: né opposizione vera, né alternativa credibile. Le piazze non si riempiono. I voti non tornano. Il popolo osserva, e si defila.

Anonimo ha detto...

Chi ha promesso di rappresentare il basso, ha preferito governare con l’alto.
Chi doveva stare nelle piazze, ha scelto le riunioni con le fondazioni.
Chi parlava di uguaglianza, ha firmato leggi che aumentavano le distanze. E il popolo, da quel momento, ha iniziato a segnare. E non ha più dimenticato.
Quando nel 2014 Matteo Renzi annunciò il Jobs Act, lo fece con i toni euforici della modernità: “semplificare”, “liberare le energie”, “dare certezze”. Ma dietro quei titoli da slide c’era una riforma che avrebbe cancellato decenni di diritti conquistati, in nome di una competitività tutta a carico dei lavoratori.
Il cuore del Jobs Act era la cancellazione dell’articolo 18 per i nuovi assunti: niente più reintegro in caso di licenziamento illegittimo, ma un’indennità economica. Si passava da diritto al posto di lavoro a compensazione per la perdita. Il messaggio era chiaro: il lavoro non è più un diritto stabile, è un contratto a tempo finché conviene.
E chi firmò tutto questo?
Non un governo tecnico, non un esecutivo di destra, ma un governo a guida Partito Democratico, sostenuto da sindaci ex rottamatori e parlamentari che un tempo difendevano le fabbriche. Fu il PD a ridisegnare il concetto di lavoratore in chiave aziendale, assumendo il linguaggio del mercato come se fosse progresso.
Il risultato?
Una precarietà generalizzata mascherata da flessibilità, un’intera generazione che si è ritrovata con contratti sempre più leggeri e tutele sempre più rare. Il boom di contratti a termine, i licenziamenti rapidi e la crescita dell’instabilità non furono incidenti di percorso: erano la logica conseguenza di quella riforma.
Ma il danno più grave fu politico, morale, identitario.
Perché con il Jobs Act il popolo della sinistra, lavoratori, precari, insegnanti, sindacalizzati, disoccupati, ha capito che qualcosa si era rotto. Che chi governava a sinistra non parlava più la sua lingua, né rappresentava più i suoi bisogni. Ha capito che la lotta non era più “noi contro le disuguaglianze”, ma “noi contro le esigenze del mercato”.
Da quel momento, il rapporto si è inclinato. E nessuna alleanza, nessun congresso, nessun volto giovane ha più saputo ricucire quella frattura.
Perché quando un partito tradisce la sua gente proprio sul lavoro, non si tratta solo di una riforma.
Si tratta di una resa. Firmata. Registrata. E mai dimenticata.
G

fracatz ha detto...

ciao Andrea, le mie più sentite condoglianze per la tua perdita, il tempo continua a scorrere comunque coinvolgendoci nelle sue evenienze

Andrea ha detto...

Ciao Fracatz, ti ringrazio davvero. Il tempo fa il suo mestiere, sì, ma ogni tanto si ferma dentro, anche se fuori continua a scorrere. Un abbraccio.

MaratonetaGiò ha detto...

Continuiamo a farci del male... Moretti docet!