19 giu 2025

Tette, tettine, tettarelle, tettone

 "Donne senza tette non governeranno mai il mondo!"   Più o meno così potrebbe tradursi in Italiano questo vecchio detto inglese "women without boobs will never rule the world" che da ragazzo lessi grafitato in un bagno del Boulderado hotel in quel lontano paese nel Colorado con l’immancabile italianissimo “il catzzo del toro fuggito dal gregge nel cul si conficchi dell’imbranato che qui legge”. Mi colpì così tanto la saggezza anglofona contro la sgangherataggine goliardica della nostra frase cameratesca, che ancora dopo 40 e più anni ne ho ricordo. Comunque tutto finisce sulla terra ed anche per questo detto così vero a quei tempi, grazie all’era delle protesi al silicone credo non ci sia più spazio dietro le porte dei cessi americani. 
(Ma è possibile che il catzzo del toro possa essere giunto persino in America?  Ma chissà la situazione nei paesi orientali che purtroppo non ho mai visitato)

eh cunny, cunny per chi non lo sa, poi quanno passa ride tutta la cittààà    

31 commenti:

Franco Battaglia ha detto...

Dipende soprattutto dal livello dei pessimi motel frequentati dal bobbolo, che giusto quelli può permettersi nell'unica trasferta transoceanica della propria incolore esitenza tra gli escrementi di Torvajanica e botte de vita tra la fanga di Fano marittima.

Anonimo ha detto...

Ahahah
Sono obsoleto e a me_mi piacciono ancora le donne repubblicane!

UUiC

allegropessimista ha detto...

Ci sono ragazze senza tette ma con un gran c... almeno quello ci vuole se vuoi governare il mondo

Andrea ha detto...

Chissà se pure nei cessi del G7, tra una stretta di mano e una conferenza sull’intelligenza artificiale, qualcuno ha scritto “women without boobs will never rule the world”. Magari accanto a un “peace and security” tracciato con un pennarello scarico, giusto per dare un tocco di realpolitik al water. Perché la geopolitica di oggi, a ben vedere, non è poi così distante da quella dei motel economici o delle cabine a Torvajanica: un mix di testosterone, narrazioni in saldo e ideologia da autogrill. Il potere si misura ancora a colpi di simboli, tra tettarelle in silicone e proclami sulla libertà, mentre intanto il popolo, quello vero, si arrangia con vacanze a rate e sogni in streaming. Altro che ordine multipolare: qui il bipolarismo è tra chi ancora crede che si governi con le curve e chi, semplicemente, non governa più neanche se stesso.

Andrea ha detto...

Eh no, ormai il culo non basta più. Serve il green pass morale, l’algoritmo del consenso, il profilo sostenibile e una laurea in comunicazione emozionale con master in storytelling lacrimevole. Il potere oggi non si conquista con le curve, ma con le curve dei dati. Altro che gran c…: per governare il mondo ci vuole una reputazione digitale da pornostar vegana, una newsletter settimanale sul cambiamento climatico e un profilo TikTok in cui si piange bene. E soprattutto ci vuole un forte tocco di follia, di quella seria, certificata e distribuita in comode dosi mediatiche: il potere non è più sexy, ma ha bisogno di essere hot nel feed, caldo nelle emozioni, e rigorosamente bollente per chi guarda senza capire.

Anonimo ha detto...

Altro che tettarelle, altro che culo: oggi il potere si presenta in giacca sartoriale con algoritmo nel taschino e commozione pilotata in diretta streaming. Le vecchie metafore sessuate del comando, tette, chiappe, muscoli e falli di bronzo, sono state rottamate come le cabine telefoniche: restano nei graffiti, ma il potere vero ha cambiato pelle. Ora è neutro, trasparente, sostenibile e perfino un po’ dispiaciuto mentre ti fotte. Non comanda più chi ha più attributi, ma chi ha il controllo dell’inquadratura, della narrazione, della reazione emotiva. E allora sì, forse quelle tettarelle avevano più onestà simbolica: almeno erano esplicite, mentre oggi ci governano le tettarelle algoritmiche, morbide, mutevoli, ma capaci di allattare intere generazioni con latte sintetico e retorica liquida. E quando ci accorgiamo che ci stanno ciucciando il futuro, è troppo tardi: hanno già avviato la campagna di comunicazione per farci dire che è colpa nostra.
G

Andrea ha detto...

Hai ragione sul latte sintetico e sulla narrazione, ma qui non si tratta solo di metafore: è la sostanza del potere che si è trasformata in ipnosi collettiva. Altro che “commozione pilotata”: siamo dentro una mutazione strutturale, e chi comanda davvero non ha più bisogno di mostrarsi. Vuoi degli esempi? Prendiamo il 4 dicembre 2016, referendum costituzionale: fu venduto come “modernizzazione”, ma era solo un trasferimento verticale del potere, con l'elettore ridotto a comparsa. Oppure l’8 agosto 2019, quando Salvini fece cadere il governo Conte I in pieno Papeete, convinto che bastasse un mojito per comandare: lì il culo non bastò davvero, e finì fuori dai giochi. Poi il 2020: la gestione pandemica in Italia ha mostrato il potere delle "tettarelle algoritmiche", come dici tu, i DPCM, i bollettini, il CTS, l'emergenza usata come surrogato del consenso. Ma il picco dell'inganno lo abbiamo raggiunto col PNRR: miliardi promessi nel nome della transizione e dell'inclusività, e intanto scuole che cadono a pezzi, sanità svuotata, e burocrazia moltiplicata. Questo non è solo potere travestito da cura: è occupazione permanente dello spazio pubblico da parte della tecnocrazia, senza volto e senza voto. Altro che tettarelle. Qui ci hanno messo direttamente il biberon in bocca, e dentro non c’è latte: c’è rassegnazione.

Anonimo ha detto...

Quando il 22 giugno 2025 abbiamo salutato per l’ultima volta il Maestro Pomodoro, re del bronzo, l’uomo che apriva le sue sfere per mostrarci che dentro il metallo scintillante c’era un core di fratture e ingranaggi, abbiamo avuto la prova definitiva che la nostra epoca è tutta patina e cavità. Perché da quel giorno, di bronzo non restano solo le sue sculture: è l’intero potere a essersi fuso in un guscio lucido, autoreferenziale, dentro il quale rombano meccanismi che nessuno osa più ispezionare. Dal referendum del 4 dicembre 2016 (venduto come “snellimento” e risultato un colpo di centralizzazione) al Mojito-golpe dell’8 agosto 2019 fino al PNRR-circus inaugurato il 13 luglio 2021 tra fanfare di digitalizzazione e sprechi certificati, abbiamo colato strati di bronzo su ogni falla del sistema, sperando che la lucentezza nascondesse la ruggine. Ora capiamo che non bastano più né tettarelle né gran culi: governano le superfici, i riverberi, gli hashtag metallizzati, mentre dentro le sfere si accumulano polvere e silenzio. La morte di Pomodoro ci ricorda che il vero artista spaccava il suo stesso metallo per far vedere il vuoto; il potere di oggi, invece, salda le crepe e ci invita ad ammirarne il riflesso. Ma sappiate che il bronzo, se non lo si lucida, ossida. E presto la patina diventerà macchia, rivelando a tutti che quella “transizione” di cui ci nutrono è solo un monumento all’immobilismo, levigato a dovere per sembrare eterno.
G

Andrea ha detto...

Che bel commento, Gianluigi. Hai dato voce al bronzo che ancora respira sotto la patina del nostro tempo. Non resta che ascoltare il rumore silenzioso delle crepe: forse è da lì che può nascere qualcosa di vero.

Anonimo ha detto...


In fondo va anche ringraziato, questo governo. Ci sta educando all’arte contemporanea del potere: superfici levigate, parole calibrate, strutture vuote dietro parvenze solenni. È Pomodoro rovesciato: lui apriva le sfere per mostrarci i meccanismi, loro le chiudono per farci riflettere solo la luce. Ci parlano di futuro e riforme come si parlerebbe a un bambino con in mano una tettarella di plastica: “Tienila, è nuova, è moderna, vedrai che funziona”. Intanto tagliano sulla sanità, affogano la scuola in sigle, e la giustizia si arrugginisce sotto il sole dell’indifferenza. Ma il tono è garbato, l’inquadratura è corretta, la carezza arriva prima del colpo. E noi, ipnotizzati, ci lasciamo scivolare addosso il bronzo dell’illusione.
G

Andrea ha detto...

Hai perfettamente ragione a parlare di superfici luccicanti e inganni ben confezionati: questo governo ha saputo elevare l’arte dell’illusione a metodo di governo. Ma oltre la retorica, restano leggi molto concrete che colpiscono chi ha meno. L’abolizione del Reddito di Cittadinanza, in vigore dal 1° gennaio 2024, ha lasciato indietro oltre 850.000 famiglie, rimpiazzandolo con strumenti burocratici come l’Assegno di Inclusione che seleziona e frammenta, mentre i poveri scompaiono dalle statistiche. La riforma dell’ISEE ha escluso dal calcolo i titoli di Stato fino a 50.000 euro: un favore a chi ha già risparmi, un pugno in faccia a chi non li avrà mai. La riforma sulla disabilità, promessa e sbandierata, è stata rinviata al 2027, come se chi ha bisogni urgenti potesse vivere di proroghe. E intanto il Parlamento viene svuotato da un governo che preferisce legiferare con decreti-legge: oltre 100 in meno di tre anni. È il bronzo del potere che si lucida a ogni conferenza stampa, ma dietro resta vuoto. Altro che tettarelle e culi: qui ci stanno prendendo per fame e per stanchezza, con una carezza che nasconde sempre il colpo.

Anonimo ha detto...

È curioso come oggi il vero potere non passi per le curve, ma per i riflettori. Il nostro governo sa bene che una giacca lucida, un titolo favorevole in copertina e un maxi-stipendio da influencer istituzionale valgono più di ogni riforma. Di fatto, RAI, quella che dovrebbe essere un servizio pubblico, è diventata teatro di una “rivoluzione culturale” orchestrata dall’alto: nomine amiche, levigate carezze mediatiche, e programmi allegri su Marinetti e il nazionalismo, mentre scompaiono i contraddittori e le inchieste scomode. Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le proteste interne e gli scioperi tra i giornalisti, preoccupati per un’informazione sempre più filtrata, sempre meno libera: monologhi antifascisti cancellati, voci indipendenti silenziate, e una linea editoriale che pare tracciata direttamente dal potere esecutivo. La domanda non è se il governo ora controlla i media, ma fino a che punto userà questa patina riflettente, gentile, ma implacabile. Ogni applauso in diretta, ogni titolo concordato, ogni rinvio del dissenso diventa un colpo alla sostanza democratica. E così, mentre ci offrono il metallo lucido di una narrazione rassicurante, sotto i riflettori scivola via la sua polvere più preziosa: la verità.
G

Andrea ha detto...

Già, oggi il potere non ha bisogno di censurare con la forza: basta blandire con la luce. Nessuno vieta, tutti “armonizzano”. L’opinione non si spegne: si sfuma. L’informazione non si reprime: si diluisce. Il capolavoro è che molti giornalisti si autocensurano prima ancora che arrivi l’ordine. E così la libertà di stampa non muore in diretta: svanisce lentamente, tra un talk ben confezionato e un applauso fuori campo.

UnUomo.InCammino ha detto...

Il PNNR è una delle più grandi creazioni di tossicodipendenza da debito.
Tutti soldi a prestito spesso usati per progetti inutii se non dannosi.
Uno stato - Europa sempre più statalista, spacciatori per tossicodipendenti da deficit e debito.
C'è qualche sciocco che blatera di neoliberismo.

UnUomo.InCammino ha detto...

L'abolizione del reddito di fancazzanza è in gran parte un artefizio solo formale, visto che è stato rimpiazzato dal reddito di inclusione.
Invece la strada maestra della natura ci insegna che NON si mangia gratis.

Andrea ha detto...

Dire che l’abolizione del Reddito di Cittadinanza è solo un "artefizio formale" è una semplificazione che ignora le conseguenze reali: il cosiddetto Reddito di Inclusione non copre più chi è davvero povero ma non ha figli minori, disabilità o anziani in casa. Sono centinaia di migliaia le persone scomparse dal radar, non per fancazzismo, ma perché non rientrano nei nuovi criteri burocratici. Quanto al “non si mangia gratis”, sarebbe interessante capire chi sta davvero mangiando gratis oggi: forse chi ha accumulato extraprofitti in bolletta, chi ottiene fondi pubblici senza produrre servizi reali, o chi gode di scivoli fiscali cuciti su misura. La natura, semmai, ci insegna che la sopravvivenza è un diritto, non una concessione condizionata dal reddito o dalla retorica del merito. E in uno Stato che si definisce civile, non è l’elemosina che serve, ma la dignità garantita.

Anonimo ha detto...

Il problema oggi non è chi “mangia gratis”, ma chi lavora e continua a digiunare. Parliamo di milioni di italiani che timbrano ogni giorno per salari da fame, contratti a ore, partite IVA camuffate e affitti che si mangiano mezzo stipendio. È il nuovo proletariato senza fabbrica né voce. E intanto, mentre si punta il dito contro chi prende 500 euro di sussidio, nessuno osa dire che la vera emergenza è il lavoro che non emancipa, ma intrappola. E dove sono gli intellettuali, quelli veri? Spariti, o peggio: integrati. Scrivono editoriali educati, partecipano ai festival e si indignano con garbo, ma non scaldano più il sangue né organizzano resistenza. In Francia basta aumentare di due anni l’età pensionabile e Parigi si blocca. In Italia puoi togliere un reddito, aumentare la precarietà, smontare la sanità pubblica... e il massimo che accade è un tweet indignato. Senza una cultura che unisce, senza parole che incendiano, resta solo la polvere della rassegnazione. E chi comanda lo sa: nessuno teme un popolo che si dispera in silenzio.
G

Andrea ha detto...

Sì G, anche gli intellettuali oggi sono divisi, e non solo: sono dispersi, spesso paralizzati in ego accademici, progetti personali o rubriche da mantenere. Durante la pandemia, anziché costruire un pensiero critico collettivo, hanno scelto la trincea: chi obbediva senza fiatare e chi urlava nel deserto, ma nessuno che riuscisse a unire le voci in un fronte comune. Sul lavoro povero, sulla precarietà, sulla perdita di dignità quotidiana non si è levata una voce che parlasse al Paese intero: al massimo qualche editoriale, qualche convegno, poi il silenzio. Intanto, molti si sono accomodati nel salotto buono del potere, ospiti fissi nei talk, consulenti, editorialisti ben inseriti: critici a parole, funzionali nei fatti. E quelli che provano ancora a pensare con coraggio, Revelli, Montanari, Celestini, vengono ridotti a macchiette, ghettizzati come “radical chic” o intellettuali da salotto. La sinistra culturale, poi, è tutta una fiera della specializzazione: chi parla solo di ambiente, chi solo di Palestina, chi solo di linguaggio. Tutto giusto, tutto nobile, ma ognuno per sé. Nessuno che tenga insieme popolo e pensiero, pane e parole. Non c’è più un Gramsci, un Pasolini, uno Sciascia: nessuno che scenda dal podio per stare davvero dentro il conflitto. E il risultato è che la piazza resta vuota, mentre il potere avanza, lucido, impunito e solitario.

Anonimo ha detto...

Gli intellettuali invitati a corte sono i peggiori, perché hanno tradito due volte: prima la verità, poi il popolo. Si fingono critici, ma solo fino al limite del permesso. Occupano spazi, editoriali, cattedre, festival, con l’aria di chi fa opposizione, ma sempre con misura, sempre con garbo, sempre dentro i confini del salotto. Sono gli stessi che firmavano appelli vibranti contro la precarietà... tra un convegno ministeriale e una consulenza retribuita. Hanno sostituito il coraggio con la carriera, la coerenza con il contatto giusto, il rischio con la retorica. Quando il potere chiama, loro rispondono, non per servire la comunità, ma per garantirsi la poltrona alla prossima riforma. Sono il volto sorridente della complicità, i sacerdoti del nulla travestiti da progressisti. E nel frattempo, fuori da corte, il paese reale annaspa, senza voce, senza interpreti, senza nessuno che dica: adesso basta. Ma tranquilli, al prossimo premio letterario, torneranno a dirci cos’è la verità. Solo che, a quel punto, sarà troppo tardi per ascoltarli.
G

Andrea ha detto...

Sì, sono divisi. E peggio: sono de-politicizzati. Riflessioni brillanti, ma incapaci di far scendere la gente in piazza. E senza un popolo che si muove, anche le parole migliori restano sospese nell’aria, come il bronzo delle statue: bello da vedere, ma freddo.

Sara ha detto...

Io sono una minoranza da rispettare!

Anonimo ha detto...

Hai ragione, Sara. Essere minoranza significa avere diritto a rispetto, ascolto e dignità, non a compassione di circostanza. Ma troppo spesso, oggi, le minoranze vengono esibite più che comprese, usate come decorazione nel discorso pubblico senza che si tocchino davvero le radici dell’ingiustizia. Il rispetto vero inizia quando si smette di usare le etichette e si comincia a guardare le persone.
Comunque, da quello che leggo anche tra i compagni più delusi e disillusi, forse sei proprio tu l’unica che è riuscita a tenere una linea ferma, senza farsi trascinare né dal cinismo né dalle mode del momento. E in un periodo in cui quasi tutto ondeggia, anche restare in piedi è già una forma di resistenza.
G

Anonimo ha detto...

E poi c’è lei, la meritocrazia: la parola magica che giustifica tutto e non spiega nulla. La bandiera perfetta per chi comanda senza doversi più scusare. Oggi ti dicono che se non ce la fai, è perché non ti sei impegnato abbastanza. Non importa se sei nato in un quartiere dormitorio, se la scuola che hai frequentato era un rudere con supplenti a rotazione, se i tuoi genitori facevano i salti mortali per pagare le bollette. Meritocrazia, ti rispondono. Ma in realtà si premia chi ha già vinto in partenza: chi ha i mezzi, le relazioni, le basi sicure da cui partire. Gli altri, se vanno male, diventano “fannulloni”; se si lamentano, sono “invidiosi”; se protestano, diventano “estremisti”. È una retorica che trasforma i privilegi in meriti e le fatiche in colpe. E mentre ti spingono a correre, ti legano i piedi con l’ISEE, la burocrazia, i contratti a chiamata. Ma guai a dirlo: il sistema è giusto, sei tu che sei scarso. La nuova morale non ha più bisogno di repressione: basta raccontarti che sei libero di farcela, purché nessuno ti aiuti davvero.
G

Andrea ha detto...

Condivido tutto. E se vogliamo dare un volto concreto a questa “meritocrazia” distorta, basta guardarsi attorno. Nelle scuole, ad esempio, dove gli studenti delle periferie devono fare i conti con classi sovraffollate, strutture fatiscenti e docenti precari che cambiano ogni anno: che possibilità hanno di competere alla pari con chi frequenta i licei dei centri storici, con doposcuola privati e vacanze studio? Oppure pensiamo ai concorsi pubblici: sulla carta uguali per tutti, ma nella realtà chi ha tempo e soldi per prepararsi, magari già assunto in un’amministrazione, parte in netto vantaggio. E che dire del Superbonus, spacciato come misura democratica? Invece ha favorito chi già aveva casa, soldi e capacità di navigare tra i mille cavilli normativi, lasciando indietro chi non poteva nemmeno anticipare i costi. Il mercato del lavoro, poi, è l’esempio più eclatante: un giovane del Sud, con una laurea e magari un voto altissimo, vale meno di uno con lo zainetto giusto e qualche contatto a Milano. In questo Paese, più che il merito, conta il codice postale di nascita. Eppure, ci raccontano che il problema siamo noi, non il campo di gioco inclinato. Ma senza riequilibrio reale delle opportunità, la meritocrazia non è altro che un alibi per mantenere i privilegi.

Anonimo ha detto...

Approfondisco un po' Andrea. La retorica della meritocrazia è forse la più grande truffa ideologica del nostro tempo. È la versione postmoderna del "chi è povero è colpa sua", ma con un lessico da TED Talk e una grafica accattivante. Viene spacciata come giustizia, ma è selezione truccata. Basta guardare il sistema scolastico: nei quartieri benestanti si moltiplicano le scuole “di eccellenza”, con laboratori, docenti stabili, accesso a Erasmus, certificazioni linguistiche. Altrove, ci sono edifici che cadono a pezzi, senza palestre, con insegnanti a rotazione ogni tre mesi. Eppure il giudizio è lo stesso, il voto fa media uguale. È giusto chiedersi: quale “merito” può mai avere chi parte zoppo e viene poi accusato di non saper correre? Nei concorsi pubblici si pretende parità, ma chi ha il tempo e i mezzi per prepararsi, magari vivendo in casa con i genitori fino a 35 anni senza dover lavorare, ha un vantaggio enorme su chi ogni giorno deve barcamenarsi tra affitti, lavori precari, figli da crescere. Anche lì, il merito è solo una scorciatoia per premiare chi ha più risorse, non più valore.
Prendiamo poi il Superbonus: sul piano narrativo, una misura “per tutti”, sul piano pratico un labirinto tecnico e burocratico che ha favorito chi aveva tempo, capitale iniziale e un buon commercialista. I poveri sono rimasti a guardare l’impalcatura salire sul tetto del vicino. Nel mondo del lavoro, il paradosso è ancora più evidente: si premia chi ha “esperienza” ma nessuno si chiede come faccia un giovane senza contatti a farsi assumere. Si cercano “soft skills”, cioè buone maniere aziendali, più che competenze vere. Si vuole flessibilità, cioè disponibilità a farsi sfruttare. E mentre tutto questo accade, chi si lamenta viene accusato di essere pigro, rancoroso, non “competitivo”.
La verità è che la parola “merito” viene usata per non parlare mai di eguaglianza. È un concetto comodo perché sembra neutro, ma nasconde un sistema diseguale in cui chi ha già prende ancora, e chi ha meno viene educato alla colpa. Si fanno classifiche, graduatorie, premialità... ma mai redistribuzione, mai rimozione degli ostacoli veri. In questo schema, il figlio dell’operaio che si laurea in ingegneria è l’eccezione da sbandierare in TV. Gli altri, quelli che non ce la fanno, sono il rumore di fondo da ignorare.
Ecco perché la meritocrazia, in Italia, non è il motore della giustizia. È solo la scusa più elegante per continuare a tenere il motore spento e dire che non parte perché non hai girato bene la chiave.
G

Andrea ha detto...

Vero G, la meritocrazia, in Italia, è come una maratona truccata: c’è chi parte dal via con le scarpe slacciate e chi parte dal trentesimo chilometro con coach, integratori e una bici nascosta dietro al cespuglio. Poi a fine gara ci raccontano che ha vinto il più motivato. Ma qui il problema non è l’impegno: è il campo di gioco, costruito su disuguaglianze strutturali. Chi nasce povero oggi ha meno accesso alla scuola, alla salute, alla casa, al tempo per formarsi. E il lavoro che trova, se lo trova, è spesso povero, frammentato, senza diritti. L’ascensore sociale è rotto da anni, ma invece di ripararlo, ci dicono che dobbiamo salire a piedi, magari scalzi, e con il sorriso. Intanto, chi è già sopra ci guarda e applaude alla “libertà di riuscire”. Ma senza giustizia vera, senza riequilibrio delle condizioni di partenza, parlare di merito è solo un modo elegante per scaricare la colpa su chi resta indietro. Altro che valorizzazione dei talenti: qui si premiano solo i privilegi.

Anonimo ha detto...

Per raggiungere il 5% del PIL in spesa militare, circa 90-100 miliardi l’anno, cioè quattro volte l’attuale budget della Difesa, lo Stato dovrà scavare nel cuore vivo del bilancio pubblico. Dove li troveranno? Ecco qualche previsione concreta, e tragica Andrea:
Sanità pubblica: già oggi siamo sotto la media europea. L’ulteriore compressione dei fondi comporterà chiusura di ospedali, riduzione di personale sanitario, liste d’attesa ancora più lunghe. Se hai soldi, ti curi. Se no, aspetti, o muori.
Scuola e università: docenti precari, edifici fatiscenti, studenti costretti a lavorare per pagarsi gli studi. L’aumento della spesa militare significherà meno investimenti in istruzione e più dispersione scolastica. Altro che merito: si punirà chi parte dal basso.
Politiche sociali: con un welfare già sbriciolato, sarà impossibile finanziare salario minimo, assegni universali, sostegno alla disabilità o lotta alla povertà. E i “non produttivi”, anziani, malati, disoccupati, diventeranno zavorra da alleggerire.
Trasporto pubblico e infrastrutture civili: le grandi opere “per il popolo” saranno sacrificate per costruire basi NATO, rafforzare corridoi militari, blindare porti e aeroporti strategici. Intere regioni resteranno isolate o marginalizzate.
Transizione ecologica? Dimenticatela. Le risorse previste per ambiente, energia pulita, comunità locali verranno dirottate su tecnologie dual use: droni, cybersicurezza, logistica bellica. L’unica transizione sarà verso un’economia di guerra.
Chi sarà irrimediabilmente compromesso? I soliti. Le famiglie monoreddito, i giovani precari, il Sud, i disabili, i piccoli comuni, chi lavora a tempo determinato, chi non ha capitale né lobby. In sintesi: tutti quelli a cui la retorica della “meritocrazia” dice ogni giorno di “farcela da soli”, salvo poi tagliargli le gambe mentre si preparano a correre.
G

Andrea ha detto...

Destinare il 5% del PIL alla spesa militare in un Paese con un debito oltre il 140% è puro suicidio politico ed economico. Ma la tragedia vera è che a gestire questa follia c’è una classe dirigente inadeguata, priva di visione e formata da burocrati della comunicazione e carrieristi di partito. Incapaci di risanare la sanità, riformare la scuola, dare un futuro ai giovani, ma pronti a firmare assegni miliardari in nome della “sicurezza”. Con quale coraggio? Stiamo per impegnare quasi 100 miliardi l’anno in armamenti mentre milioni di italiani non riescono più a pagare l’affitto o a curarsi. E quando arriverà il conto, e arriverà presto, ci diranno che servono sacrifici. Ma saranno sempre gli stessi a pagarli: i poveri, i lavoratori precari, le famiglie senza tutele. Altro che difesa: questa è resa, mascherata da patriottismo. E firmata da chi, se non fosse per il listino bloccato, non entrerebbe nemmeno in un consiglio comunale.

fracatz ha detto...

però, mettendo ogni anno il 5% del pil in armamenti, poi si dovrà pure consumarli e quindi si potrebbe pensare seriamente a riconquistarci l'impero, quello dei Cesari e riaprire financo er colosseo con gran smaltimento di mortidifame che ormai stanno distruggendo il pianeta con i loro consumi inquinanti

Andrea ha detto...

Hai ragione, Fracatz: con tutto questo ben di Dio da 5% del PIL, prima o poi l’arsenale andrà "consumato" per davvero, magari in una nobile crociata globale per difendere l’Impero della Democrazia. Ma la realtà è che l’Europa non sarà mai attaccata seriamente non perché sia forte, ma perché è troppo utile per essere bombardata. Serve agli Stati Uniti per bilanciare potenze rivali, alla Cina per vendere e comprare, alla Russia per giocare la sua partita energetica, e agli sceicchi per parcheggiare i capitali. Siamo il duty free della geopolitica.
E quando l’Iran minaccia di chiudere lo Stretto di Hormuz, tutti, da Washington a Pechino, trattengono il fiato, perché da lì passa il 20% del petrolio mondiale. E se si blocca quello stretto, non parte la guerra: si ferma il mondo. Ecco perché basterebbe un esercito di guardie svizzere, sobrie ed efficienti, come in Vaticano. Ma no: noi ci prepariamo alla guerra totale, con droni intelligenti e generali influencer, perché il teatro va mantenuto, le industrie vanno ingrassate e il popolo va rassicurato con l’illusione della forza. Intanto, il vero potere si esercita senza sparare: basta chiudere una rotta, e il globo va in tilt. Altro che Colosseo: oggi si conquista senza muovere un legionario.

Anonimo ha detto...

Bravo, hai centrato tutto. Basta guardare cosa è successo allo Stretto di Hormuz: bastata una minaccia vera e si sono allineati tutti, da Washington a Teheran. Trump ha capito che lì non si gioca alla guerra, si gioca alla sopravvivenza dell’intero sistema globale. E Netanyahu, che può piacere o no ma 40 anni di potere non si improvvisano, ha colto subito il punto: puoi alzare i toni finché vuoi, ma quando toccano le vene del mondo, le maschere cadono e restano solo gli interessi. E quelli, guarda caso, parlano sempre la stessa lingua.
G